Sono 4.403 le specie viventi a rischio di estinzione a causa del regime degli incendi che si sta modificando a scala globale. Questo emerge da un articolo review pubblicato nei giorni scorsi su Science e intitolato Fuoco e biodiversità nell’antropocene. Poiché le specie a rischio di estinzione catalogate dalla International Union for the Conservation of Nature (IUCN) prese in esame dal nutrito gruppo di autori è pari a 29.304, significa che il fuoco incide per il 15% in quella erosione della biodiversità che caratterizza l’era geologia in cui gli umani sono il principale fattore e per questo chiamata Antropocene.
In questi ultimi anni le cronache ci hanno dato notizia di incendi molto estesi in aree tropicali (in Brasile e più in generale in Amazzonia, in Africa e in Australia), ma anche più a nord nelle foreste boreali di Russia e Canada.
Il fuoco è parte della dinamica ecologica. E non è solo un elemento distruttore. Ci sono piante, per esempio, che rilasciano i loro semi solo dopo un incendio, scattando veloci nella gara per la riconquista dei suoli liberati dalle fiamme e resi disponibili per un nuovo ripopolamento. Anche molti animali si sono specializzati nel ritorno dopo il fuoco. Il report su Science specifica che sono almeno 55 le specie a rischio di estinzione non per eccesso ma per mancanza di fuoco. Non deve sorprendere, non è forse l’atmosfera del pianeta Terra ricca di ossigeno, una molecola altamente infiammabile? Ragion per cui la vita si è dovuta adattare alla convivenza con gli incendi. E come spesso è accaduto nella storia naturale si è fatto di necessità virtù, per cui il fuoco è diventato (anche) un elemento positivo nello sviluppo degli ecosistemi.
Le cose sono un po’ cambiate con l’arrivo del genere Homo, con diverse specie che hanno imparato a conservare e utilizzare il fuoco. Quando poi una di queste specie, Homo sapiens ha realizzato la sua prima rivoluzione economica e da cacciatore e raccoglitore ha iniziato procurarsi il cibo coltivando e allevando, ecco che il regime dei fuochi sul pianeta è radicalmente cambiato. Probabilmente nel corso della loro breve vicenda dal neolitico a oggi, gli umani hanno distrutto la metà delle foreste del pianeta, in gran parte incendiandole. L’impatto sugli ecosistemi del fuoco di origine antropica è stato ed è, dunque, davvero enorme.
Ma veniamo agli incendi ai nostri giorni e ai loro effetti principali. Abbiamo detto che si verificano in maniera importante e frequente sia ai tropici che nelle aree temperate e boreali. Gli effetti ecologici degli incendi tropicali indotti dagli umani sono molto (ma non del tutto) simili. Intanto ad essere distrutti dal fuoco sono interi ecosistemi con una perdita enorme di biodiversità, come l’articolo di Science indica. Inoltre si riduce una delle fonti naturali di ossigeno. E, infine, c’è un impatto immediato sul clima globale, perché gli incendi liberano gas serra, in particolare anidride carbonica. Fra poco vedremo che la situazione è più complessa. Ma intanto diciamo che la perdita di alberi è reversibile: nel giro di due o tre decenni la foresta può ricrescere completamente e riassorbire persino più del carbonio rilasciato con l’incendio. Diventa irreversibile, invece, se, come vorrebbero molti tra gli incendiari (per esempio in Brasile), il terreno bruciato viene destinato ad altro uso. Cosa che in genere non avviene in Africa. Non con l’estensione e la sistematicità del Brasile, almeno. Ecco perché gli effetti dei fuochi brasiliani sono, forse, più perversi di quelli africani.
Un po’ diverso sono gli effetti degli incendi boreali, quelli che negli ultimissimi anni hanno interessato soprattutto la Siberia. Non ne conosciamo esattamente le cause. Forse le foreste siberiane sono andate bruciate per ragioni naturali: per autocombustione, favorita dalle alte e per molti versi inedite temperature che negli ultimi tempi hanno interessato la regione. Il fenomeno ha almeno una triplice valenza.
La prima è analoga a quella degli incendi ai tropici: a subire uno shock è spesso un intero ecosistema, con perdite di alberi, di sottobosco e di animali. La seconda è che gli incendi oltre il circolo polare artico sono un indizio chiaro che i cambiamenti del clima stanno procedendo a un ritmo forse più veloce del previsto. Un altro indizio, lì alle alte latitudini, è il rapido scioglimento di una gran quantità di ghiaccio in Groenlandia. E, anche, i record spesso raggiunti dalle temperature nella gran parte dell’Europa centro-settentrionale.
La terza valenza, tra le principali, riguarda le cause del cambiamento del clima. Si è detto, per esempio, che i recenti incendi in Siberia hanno liberato in pochi giorni una quantità di anidride carbonica pari a quella emessa dal Belgio in un intero anno. Il paragone regge, ma solo fino a un certo punto. A grana grossa, possiamo dire che le emissioni annue del Belgio hanno un carattere diverso da quelle siberiane. Le prime sono irreversibili, in tempi brevi e medi. Le emissioni dei paesi avanzati, infatti, sono dovute soprattutto all’uso dei combustibili fossili. Il che significa che viene liberato il carbonio congelato da milioni di anni nei combustibili fossili (carbone, petrolio e gas naturale e poiché non c’è un “pozzo” conosciuto in natura che lo assorba completamente, questo “carbonio congelato” finisce per accumularsi in atmosfera (oltre che negli oceani).
Il carbonio liberato dall’incendio degli alberi in Siberia o altrove comporta una modificazione potenzialmente reversibile della chimica dell’atmosfera. Infatti, come abbiamo detto, può essere completamente riassorbito nel giro di qualche decennio: basta che siano riforestati i boschi distrutti. La riforestazione avviene in maniera più lenta se lasciata alla spontaneità della natura o in maniera più veloce se eseguita ad arte e in maniera ecologicamente sostenibile dall’uomo.
Dunque l’incremento di anidride carbonica dovuto agli incendi di origine antropica è, almeno in parte, reversibile. Fa danni a breve, ma nel medio periodo può essere facilmente riassorbito.
Tuttavia il bilancio non è così semplice. Le foreste boreali in Siberia e in altre aree oltre il circolo polare artico costituiscono dal 30 al 40% di tutte le foreste del mondo. E a causa degli incendi sempre più frequenti – causa cambiamento del clima – minacciano di trasformarsi da pozzo a fonte di anidride carbonica, come hanno sostenuto Xanthe J. Walker – del Center for Ecosystem Science and Society, della Northern Arizona University di Flagstaff, appunto in Arizona (USA) – e un gruppo di suoi collaboratori in un articolo pubblicato un paio di anni fa su Nature.
L’articolo è stato pubblicato praticamente negli stessi giorni in cui si consumavano alcuni grandi incendi in Siberia. Ma si tratta di una pura coincidenza, perché la ricerca di Walker e colleghi riguarda una serie di incendi verificatisi in Canada qualche anno prima. Il cui succo è questo: tra il 70% e l’80% del carbonio “congelato” dalle foreste boreali non si trova nelle radici, nel fusto e nei rami degli alberi ma nella materia organica che si trova al suolo. Molto più che nelle foreste tropicali. Questa materia organica, frutto della decomposizione degli alberi morti (anche per combustione), si accumula nel corso di molti decenni.
Ebbene, gli ecologi americani hanno ben presente che, almeno negli ultimi 6.000 anni, il maggior fattore di perturbazione degli ecosistemi boreali sono stati proprio gli incendi, la gran parte di origine naturale. Ma nel loro studio hanno dimostrato che se in un’area la frequenza di questi incendi si mantiene in un intervallo compreso tra 70 e 200 anni, allora la materia organica del suolo tende ad accumularsi e dunque la foresta boreale costituisce un pozzo di carbonio.
Negli ultimi 6.000 anni la frequenza media degli incendi nelle aree coperte da foreste boreali è rientrata perfettamente nell’intervallo 70-200 anni. Dunque, le foreste boreali sono state un “pozzo” du anidride carbonica.
Il sistema funziona, più o meno, così: gli alberi muoiono e si decompongono, ma il carbonio di cui sono fatti resta al suolo e si accumula. Su questo materiale organico crescono nuovi alberi che sottraggono carbonio all’atmosfera. Ecco perché negli ultimi sei millenni (almeno) le foreste boreali hanno contribuito ad abbassare la concentrazione di anidride carbonica in atmosfera.
Quando, però, la frequenza degli incendi in un’area aumenta e scende sotto i settant’anni, la foresta boreale da pozzo si trasforma in fonte di carbonio. La materia organica al suolo brucia liberando carbonio e non fa in tempo a recuperare tutto quello che ha emesso.
Ebbene, sostengono Walker e colleghi, negli ultimi anni, a causa dei cambiamenti climatici, in molte zone coperte da foreste boreali gli incendi sono diventati più frequenti. La materia organica al suolo brucia con gli alberi e questo enorme riserva di carbonio sta ribaltando il suo ruolo nell’ambito del sistema clima: da pozzo, appunto, a fonte.
Gli esperti di scienza dei sistemi direbbero che da feedback negativo (da freno) del cambiamento del clima, la foresta boreale si sta trasformando in feedback positivo (in un acceleratore). O, se volete, la foresta boreale si sta avvitando in una spirale perversa: più cambia il clima con un aumento della temperatura media, più gli incendi aumentano di frequenza, più la foresta boreale aiuta a cambiare il clima con relativo aumento della temperatura media del pianeta.
Occorre, dunque, spezzare questo circolo vizioso, se vogliamo un futuro climatico desiderabile. Con due diverse azioni: una a scala globale, mettendo in atto nel più breve tutte le azioni per prevenire il climate change; la seconda a scala locale (sì fa per dire, perché le foreste boreali occupano aree immense), prevenendo gli incendi, intervenendo in modo rapido per spegnerli e gestendo in maniera attiva il territorio.
Non è facile, questa seconda azione. Così come non è facile la prima. Si tratta di controllare aree grandi quanto la Siberia o la parte settentrionale del Canada. Ma contenere il cambiamento del clima che noi abbiamo provocato e stiamo ancora provocando non è una passeggiata. Occorre cambiare cultura e organizzazione. Mettere a punto nuove tecnologie. Stabilire collaborazioni internazionali più strette ed efficienti.
Pur nella diversità, un’analoga attenzione andrebbe riservata alle foreste tropicali in Africa, in Sud America e anche in Asia.
Molti anni fa Michail Gorbaciov propose la costituzione della “croce verde”, una forza internazionale di pronto intervento per affrontare le emergenze ambientali. Se questa struttura fosse stata creata, oggi avremmo la possibilità di un pronto e più efficace intervento quando si verificano incendi di vaste proporzioni in Siberia quanto in Brasile e in Africa.
La “croce verde” non è stata realizzata. E ne paghiamo il conto. Forse è il caso di organizzarla.