SCIENZA E RICERCA

Genomi di alcuni per la salute di tutti?

I problemi di salute mentale possono avere diverse cause, alcune delle quali sono di tipo ambientale e associate, quindi, a fattori di rischio esterni, mentre altre sono nascoste nel nostro DNA. Secondo l’OMS, i casi di malattia mentale sono in aumento in tutto il mondo e costituiscono un problema di salute pubblica. Individuare i tratti genetici associati all’insorgenza di tali disturbi potrebbe perciò essere di grande aiuto alla ricerca medica e scientifica finalizzata alla prevenzione e alla cura di queste patologie. Le basi genetiche dei problemi psichiatrici si studiano tramite la comparazione dei genomi delle persone con un disturbo mentale e di quelle che ne sono prive. Eppure, molte di esse rimangono ancora in gran parte oscure.

Una delle difficoltà che incontrano gli studiosi di epidemiologia genetica riguarda la scarsa diversità che caratterizza i dataset genetici utilizzati per la ricerca. infatti, la stragrande maggioranza dei campioni raccolti e utilizzati in questi studi proviene da individui bianchi di origine europea e non è quindi rappresentativa dall’intera variabilità genetica umana.


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Abbiamo affrontato l’argomento con Nicole Soranzo, professoressa di genetica a capo del Research Centre - Population & Medical Genomics dello Human technopole e Nicola Pirastu, ricercatore in biologia e direttore dell’Unità di biostatistica del Centro di ricerca per la genomica presso lo stesso istituto di ricerca.

“Esistono dei tratti genetici che sono associati alla predisposizione ad alcune malattie”, spiega Soranzo. “Questi tratti possono essere ereditari, quindi trasmessi dai genitori, oppure frutto di mutazioni genetiche molto rare che avvengono nei gameti prima del concepimento. Nell’epidemiologia genetica si tenta di individuare i fattori ereditari di predisposizione genetica per una certa malattia analizzando le variazioni che ricorrono con una maggiore frequenza nei DNA delle persone affette dalla patologia in questione rispetto alla popolazione in generale. Questo metodo, chiamato analisi di associazione, tiene conto anche di altre caratteristiche eventualmente correlate con la malattia, come il sesso, l’età o altri fattori di rischio esterni. Quando viene rilevata una differenza significativa utilizzando una numerosità campionaria sufficiente a conferire potere statistico all’analisi, i risultati possono essere considerati un’indicazione dei possibili fattori di rischio genetico associati alla patologia. Per studiare invece i fattori genetici de novo, che si formano per processi di mutazione spontanea nei gameti, si usano solitamente approcci di sequenziamento del genoma e dell’esoma appositi, che aggregano informazioni per lo stesso gene per pazienti diversi.

“I metodi di analisi appena descritti vengono utilizzati per cercare di identificare le persone che, a causa del loro corredo genetico, corrono un rischio maggiore rispetto alla media di contrarre una certa malattia per seguirle più attentamente nella pratica clinica e per aiutarle a prestare particolare attenzione ai fattori ambientali che potrebbero causare l’insorgenza della patologia”, aggiunge Pirastu. “Per capire la differenza tra fattori di predisposizione genetica e fattori ambientali possiamo immaginare ogni persona come dotata di un bicchiere che, quando arriva a riempirsi del tutto, porta la persona ad ammalarsi. Ebbene, alcuni nascono con un bicchiere già mezzo pieno (coloro che sono predisposti dal punto di vista genetico) e hanno bisogno di meno stimoli esterni perché questo si riempia. Altri, al contrario, nascono col bicchiere vuoto e sono quindi più resistenti alla patologia. Nel caso delle patologie neurodegenerative è molto difficile appurare quali siano i fattori esterni che accelerano il riempimento di questo metaforico bicchiere. Non è chiaro, infatti, se esistano delle cause comuni che spiegano l’insorgenza di questi disturbi oppure se essi siano il risultato della somma di diversi fattori scatenanti che possono variare da persona a persona”.

“La difficoltà di identificare i fattori di rischio delle malattie psichiatriche e neurodegenerative deriva proprio dalla necessità di basare l’analisi su dataset molto ampi e che richiedono quindi campionamenti piuttosto estesi”, continua Soranzo. “Per quanto esistano degli approcci statistici che forniscono dati riguardo alcune possibili correlazioni – ad esempio, il rischio di Alzheimer e demenza senile in alcuni atleti, specialmente quelli di football americano e rugby, è stato associato al rischio di trauma cranico – la robustezza di queste analisi è variabile”. “La ricerca sui fattori di predisposizione genetica ha, naturalmente, anche finalità terapeutiche”, prosegue Pirastu. “Infatti, quando viene appurato che la mutazione di un certo gene è correlata all’insorgenza di una malattia, si può capire come intervenire su quel gene per prevenirla. Anche in questo caso, però, la difficoltà è maggiore nel caso delle malattie neurodegenerative”.

“Questo succede principalmente a causa della difficoltà di diagnosticare queste malattie complesse, per le quali esistono spettri diagnostici molto ampi che impediscono di darne una definizione clinica univoca”, racconta Soranzo. “Ad esempio, una diagnosi di autismo può essere spesso composta da una costellazione di sintomi diversi che occorrono contemporaneamente. Va detto, inoltre, che nel caso delle malattie neurodegenerative o dei disturbi del neurosviluppo, anche le basi genetiche stesse possono differire tra i singoli soggetti. Al contrario, per altre malattie complesse, come il diabete, esistono fattori di rischio comuni che vengono condivisi da tutti i pazienti con quella malattia e che quindi possono sono essere identificati più facilmente. Inoltre, le cause genetiche delle malattie psichiatriche sono più spesso associate a quelle rare mutazioni spontanee nei gameti descritte in precedenza e che per essere rilevate richiedono di utilizzare specifiche tecniche di sequenziamento del genoma, le quali però sono state applicate, finora, solo su scala ridotta”.

Per tutte le ragioni illustrate da Soranzo e Pirastu, possiamo quindi capire perché lo studio delle basi genetiche delle malattie mentali e neurodegenerative costituisca un campo di ricerca particolarmente difficile. Per questo motivo, problema della sottorappresentazione di alcune popolazioni nei dataset genetici complica ulteriormente la situazione.

“Il motivo della situazione di squilibrio a livello globale tra le popolazioni rappresentate nei dataset genetici è in parte dovuto a uno sbilanciamento dei finanziamenti destinati alla ricerca verso alcune comunità, principalmente quelle del Nord America e del Nord Europa”, spiega Soranzo. “Nonostante alcuni dei fattori di predisposizione genetica ad alcune malattie siano comuni tra persone di ascendenza genetica differente, questi possono occorrere con frequenze molto diverse a seconda delle singole popolazioni. Per questo motivo, le informazioni acquisite tramite lo studio genetico della popolazione europea non riflettono completamente, necessariamente e, soprattutto, con la stessa accuratezza, le caratteristiche genetiche di altre popolazioni”. “Di conseguenza, anche i sistemi di predizione genetica – e quindi di prevenzione – più avanzati funzionano meglio per alcune persone rispetto ad altre”, riflette Pirastu. “È interessante notare che questo non vale solo per le popolazioni non europee. Anche in Italia, dove è possibile osservare una diversità genetica addirittura paragonabile a quella europea, i parametri di predizione basati sui campioni genetici degli abitanti di una certa regione non sono applicabili in toto a quelli che provengono da altre aree della penisola”.“C’è anche da dire che l’Italia è molto più indietro rispetto ad altri paesi occidentali in questo tipo di ricerca, che richiede notevoli capacità di visione, coalizione e organizzazione”, aggiunge Soranzo. “La mancanza di investimenti destinati a progetti di genomica su larga scala hanno privato la popolazione italiana dell’accesso a informazioni, strumenti e opportunità terapeutiche che sono invece disponibili in altri paesi”.

“Tornando invece a considerare la questione da una prospettiva più globale, si pone in questo caso anche un problema di equità, per cui alcune popolazioni non hanno addirittura accesso agli strumenti di prevenzione più innovativi”, prosegue Pirastu. “Ecco perché le iniziative finalizzate alla collezione di grandi biobanche in aree come l’Africa, l’Asia dell’est o l’America latina sono di fondamentale importanza per cercare di ribilanciare questa situazione di squilibrio. Lo stesso vale per iniziative simili condotte all’interno dei singoli stati, come ad esempio il progetto All of us, nato con lo scopo di colmare il gap di conoscenze relative ai tratti genetici degli statunitensi di origine europea e quelli appartenenti alle altre comunità, come quella afroamericana e quella ispanica, perché possano disporre anch’esse di opportunità terapeutiche personalizzate”.

Un altro ambizioso progetto nato con lo scopo di colmare questa lacuna tramite la raccolta di campioni di DNA in tutte le aree del pianeta si chiama Stanley Global, ed è coordinato da alcuni ricercatori dal Broad Institute del MIT e dall’università di Harvard. Il team internazionale di statistici, epidemiologi e genetisti che partecipano a questo programma di ricerca collaborano con scienziati e istituti di ricerca di tutto il mondo per raccogliere una gamma più diversificata di campioni genetici da poter usare nelle ricerche future e costruire dei dataset più rappresentativi dell’intera popolazione mondiale per lo studio delle basi genetiche dei disturbi mentali.

“Per alcune malattie, come la schizofrenia, è stato scoperto che i geni associati all’insorgenza della patologia hanno una correlazione di circa l’80% tra le popolazioni europee e quelle asiatiche, spiega Pirastu. “Questo però non vale per altre patologie, come ad esempio la depressione, dove tale correlazione è solo del 30%. Comunque, anche nei casi in cui la malattia è associata agli stessi geni e alle stesse varianti a prescindere dalla discendenza etnica, sarebbe importante aumentare la diversità tra i campioni genetici anche per capire meglio il modo in cui i diversi fattori ambientali interagiscono con quelli genetici nei processi patologici”.

“Teoricamente, un trattamento progettato sulla base delle informazioni raccolte dai campioni genetici di persone europee può rivelarsi efficace anche su membri di altre popolazioni”, osserva Soranzo. “Tuttavia, i regimi di dosaggio e le modalità d’uso in grado di massimizzare l’efficacia della terapia vengono stabiliti in base al carico genetico complessivo di una popolazione, ovvero tenendo conto, ad esempio, della presenza di particolari mutazioni e pathway biologici. Ebbene, se mancano informazioni riguardo al carico genetico complessivo di una popolazione, è difficile progettare una terapia e delle modalità di cura mirate alle persone che ne fanno parte”.

Il processo di raccolta dei campioni genetici presuppone però la costruzione di una relazione di fiducia con le comunità locali che accettano di prendere parte alla ricerca. È quindi importante assicurarsi di tutelare i diritti e gli interessi di queste ultime.

“Per rispettare il patto di fiducia tra i ricercatori e le persone che donano i campioni del loro DNA alla scienza è fondamentale, innanzitutto, che queste ultime godano di una protezione legale che assicuri loro che le informazioni acquisite nel corso delle ricerche non vengano usate a loro svantaggio”, sottolinea Soranzo. “Per inciso, va comunque ricordato che di una ricerca basata su un dataset di campioni genetici più rappresentativo della diversità umana possono beneficiare tutti, popolazioni europee comprese. Infatti, esistono varianti genetiche che sono piuttosto rare tra i membri della popolazione europea (e quindi poco conosciute) e sono invece diffuse in altre popolazioni. Ebbene, studiare tali varianti potrebbe permettere di acquisire importanti informazioni sulle basi biologiche della predisposizione ad alcune malattie a prescindere dall’ascendenza genetica. C’è poi da dire che alcune popolazioni o minoranze etniche sono tradizionalmente più riluttanti a prendere parte a progetti di ricerca di questo tipo. Tale diffidenza ha radici storiche che affondano negli atti di discriminazione e sfruttamento che alcune comunità hanno spesso subito nel corso della storia”. “È anche per evitare di errori di questo tipo che i ricercatori degli istituti europei e nordamericani che conducono questo tipo di ricerche spesso evitano di recarsi in altri paesi per raccogliere campioni di DNA e poi riportarseli in patria per studiarli”, puntualizza Pirastu. “Questa preoccupazione, però, ha contribuito a creare una realtà in cui le popolazioni poco rappresentate negli studi di genomica sono svantaggiate dal punto di vista delle opportunità mediche”.

“Perché la ricerca possa essere condotta in modo davvero ugualitario è necessario coinvolgere non solo cittadini, ma anche scienziati provenienti da diversi gruppi di popolazione”, riflette Soranzo. “Per fare questo è importante promuovere una corretta narrativa di questi studi, che devono essere non solo progettati, ma anche comunicati tramite un’ottica inclusiva sottolineando, ad esempio, che delle conoscenze acquisite potranno beneficiare tutti, a prescindere dalla provenienza”.

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