SCIENZA E RICERCA

Genomica. La mancanza di dati per alcuni gruppi di popolazione ostacola la ricerca

Lo studio dei genomi umani trova applicazione in diverse discipline scientifiche, soprattutto nell’ambito dell’antropologia molecolare che, grazie al confronto tra genomi antichi (tratti dai ritrovamenti fossili e antropologici) e moderni, si occupa di ricostruire le più antiche dinamiche di popolazione, e nella ricerca biomedica che tenta di scoprire i legami tra alcuni fattori genetici e la suscettibilità a determinate malattie per individuare nuovi target farmacologici. Inoltre, gli studi di associazione genome-wide (GWAS), che si basano sui dati ottenuti dal sequenziamento completo dei genomi di più individui per confrontarli e rilevare le variazioni genetiche, sono la base per lo sviluppo della medicina di precisione che ha lo scopo di elaborare percorsi terapeutici personalizzati per ogni singolo paziente in base alle sue caratteristiche genetiche.

Eppure, più del 75% dei campioni di DNA che vengono utilizzati per la ricerca in genetica e in genomica proviene da persone di origine europea, che rappresentano il 16% della popolazione mondiale. Questo dato emerge dai risultati di uno studio condotto nel 2019 dal professor Giorgio Sirugo, ricercatore senior alla Perelman School of Medicine dell’università della Pennsylvania, e i colleghi Sarah Tishkoff e Scott Williams.

“Analizzando la distribuzione dei dati negli studi GWAS condotti fino al 2019 ci siamo resi conto che il problema della sottorappresentazione della popolazione di origine diversa da quella europea era più grave di quanto immaginassimo, e ad oggi le cose non sono cambiate”, ha raccontato Sirugo a Il Bo Live. “Ci sono molte ragioni per cui è difficile ottenere un campione più rappresentativo della popolazione mondiale. Uno studio di genetica delle malattie richiede innanzitutto un’infrastruttura medica e assistenziale sofisticata, che è presente soltanto in certe aree del mondo. In caso contrario, i costi necessari a compensare l’assenza di queste infrastrutture possono essere molto alti. Inoltre, le agenzie che finanziano gli studi di genomica spesso non sono disposte ad accettare il rischio di investire in progetti che dovrebbero svolgersi in aree del mondo in cui è presente una instabilità politica che rischia di compromettere la ricerca.

Per quanto riguarda invece gli studi condotti da ricercatori occidentali e che coinvolgono popolazioni del Sud del mondo, un ostacolo importante è rappresentato dalla complessità degli aspetti etici. Infatti, perché uno studio di genomica si svolga correttamente dal punto di vista etico è necessario proteggere e rispettare gli interessi delle comunità locali sia quando vengono definiti gli obiettivi della ricerca, sia durante le fasi di raccolta e analisi dei campioni. Si tratta di un aspetto particolarmente delicato poiché, nel corso della storia, l'importanza di un rapporto di fiducia è stata spesso completamente ignorata da parte degli studiosi occidentali, con episodi molto gravi di inganno e sfruttamento. Oggi, fortunatamente, c’è una maggiore consapevolezza su questo tema a livello internazionale. In ogni paese del mondo esistono infatti diversi comitati etici e linee guida che servono a orientare la ricerca in questo senso. Nonostante questo, definire dei principi etici condivisi può essere complicato, perché in ogni comunità locale ci sono regole differenti. Inoltre, i tempi tecnici necessari a valutare un progetto di ricerca possono essere anche molto dilatati”.

“Gli studi sui genomi umani servono a raccogliere dati preziosi che aumentano la nostra comprensione dell’architettura genetica delle popolazioni o, in altre parole, del modo in cui la diversità genetica è distribuita tra gli esseri umani”, continua Sirugo. “Conoscere tali differenze è importante perché le persone, in base alla loro ascendenza genetica, possono essere diversamente soggette al rischio di sviluppare o contrarre molte malattie.

Ebbene, i traguardi raggiunti grazie agli sviluppi della ricerca in genomica e della medicina di precisione possono apportare un vantaggio solamente limitato all’umanità, dal momento che si basano su un campione di individui non rappresentativo dell’intera popolazione globale. In altre parole, l’esclusione totale o parziale di alcuni gruppi di popolazione dagli studi di genomica limita l’identificazione dei profili di rischio per molte patologie e ostacola il progresso della medicina di precisione”.

La comprensione delle differenze genetiche tra diversi gruppi di popolazione ha delle ripercussioni anche sulla pratica clinica. In questo caso, però, il rischio è quello di interpretare in maniera impropria i dati tratti dalla genetica di popolazione, soprattutto quando si fa riferimento al concetto di razza; è sempre un rischio, infatti, quando un individuo viene considerato, classificato e, soprattutto, curato solamente sulla base delle caratteristiche associate alla sua razza.

Negli Stati Uniti il concetto di razza orienta ancora in larga misura la pratica medica corrente, al contrario di altri paesi europei, tra cui l’Italia, dove questo termine è stato associato, dal 1938 in poi, all’antisemitismo di Stato (per via delle Leggi razziali) che è culminato con con l'assassinio di migliaia di ebrei italiani nei campi di sterminio”, sottolinea Sirugo. “La classificazione razziale dei pazienti può diventare un problema nella diagnostica e nella definizione dei percorsi terapeutici perché induce a considerare in un unico gruppo un vasto numero di persone che in realtà possono essere molto diverse tra loro dal punto di vista genetico. Infatti, la profilazione razziale si basa semplicemente sulle caratteristiche morfologiche o presunte "etniche" di un individuo, piuttosto che su quelle genetiche.

Ad esempio, negli Stati Uniti viene considerata la “razza ispanica”, un termine ombrello che viene usato per identificare soggetti che hanno origini molto diverse tra loro. Qualcosa di simile vale per la categoria della “razza afroamericana”, riguardo alla quale la ricerca scientifica ha recentemente dimostrato che gli individui classificati sotto questo termine possono avere un corredo genetico molto differente, con una percentuale di ascendenza africana nel loro genoma che può variare tra il 10 e il 100%; ad esempio, un soggetto discendente da africani deportati come schiavi nel 1600 verrà classificato allo stesso modo di un africano di recente immigrazione negli Stati Uniti.

Un altro esempio illuminante che mostra i limiti del concetto di razza nella pratica medica riguarda le modalità con cui viene valutata la prescrizione di rosuvastatina, un farmaco che serve ad abbassare i livelli di colesterolo circolante, che secondo alcuni studi ha causato un maggior numero di reazioni avverse nelle persone di “razza asiatica”. Eppure, le persone classificate sotto il termine ombrello di “razza asiatica” non sono tutte uguali dal punto di vista genetico, perché ognuna di loro può avere o meno le varianti genetiche che sono associate alla manifestazione degli effetti collaterali. Nonostante questo, spesso i medici non tengono conto di questa possibilità ed evitano a priori di prescrivere ai pazienti di origine asiatica un farmaco da cui potrebbero trarre un grande beneficio”.

Accanto al concetto di “razza”, nella ricerca biomedica e nella pratica clinica si fa spesso riferimento anche a quello di “etnia”, che ha una connotazione più neutra e libera di quel contesto storico-culturale che evoca la parola “razza”. “Il concetto di etnia viene solitamente utilizzato per descrivere i diversi sottogruppi in cui possono essere suddivise le persone che fanno parte di un’unica razza”, specifica Sirugo. “Eppure, neanche questo termine riesce a fotografare adeguatamente le differenze e le somiglianze genetiche tra singoli individui”. Mentre infatti la razza è un termine ombrello troppo generico che si basa sulle caratteristiche morfologiche osservabili, e non a quelle genetiche specifiche, l’etnia descrive piuttosto un gruppo di individui che condividono gli stessi valori, le regole sociali, la cultura o la religione.

Nonostante questo, tenere conto dell’etnia di un paziente, se fatto nel modo giusto, può avere un’utilità dal punto di vista clinico. Infatti, persone che hanno abitudini alimentari, stili di vita e comportamenti simili e vivono nello stesso ambiente hanno maggiori probabilità di avere lo stesso grado di suscettibilità ad alcune malattie. Tenere conto dell’appartenenza etnica di un individuo può quindi essere utile per valutare un possibile rischio ambientale, piuttosto che uno genetico. Infatti, quando un individuo è geneticamente predisposto a contrarre una determinata malattia, i fattori ambientali possono fare la differenza nella manifestazione della patologia.

Ad esempio, in un articolo pubblicato da Sirugo, Tishkoff e Williams sul Journal of clinical investigation si fa riferimento al fatto che la popolazione nativo americana corre un rischio maggiore di contrarre il diabete mellito di tipo 2 rispetto ad altri gruppi di individui. Eppure, l’incidenza è ancora più alta tra gli indiani Pima dell’Arizona, dove la malattia colpisce addirittura il 50% della popolazione, ed è invece molto bassa (inferiore al 10%) tra gli indiani Pima del Messico. Questo dimostra che i fattori ambientali possono giocare un ruolo cruciale nell’insorgenza o meno della malattia in individui che hanno un’analoga predisposizione genetica.

Tornando invece al concetto di razza e all’uso che se ne fa attualmente nella pratica clinica e nella ricerca biomedica, ci sarebbero diverse questioni che meritano di essere approfondite: quando e come la razza può essere utile per orientare la ricerca e la diagnostica? Se il concetto di razza non riflette adeguatamente l'effettiva diversità genetica umana, con quale termine dovremmo sostituirlo?

“Bisogna tenere conto che qualunque tipo di classificazione ha dei limiti”, afferma Sirugo “d’altronde, le categorie che utilizziamo per suddividere la popolazione non esistono di per sé, ma vengono stabilite dagli esseri umani secondo criteri più o meno arbitrari. La genetica tenta di superare questi limiti cercando di fotografare le differenze tra singoli individui, capire se tali differenze possano servire a ricostruire la stratificazione delle cosiddette “razze” e tentare di comprendere che rilevanza hanno i concetti di razza ed etnia in medicina.

È necessario, infine, che le future generazioni di medici e ricercatori siano consapevoli dei limiti della classificazione razziale e riconoscano l’importanza delle peculiarità genetiche che sono la vera causa della diversità tra persone e popolazioni. Di pari passo, perché questo sia possibile, è anche importante aumentare il numero di ricerche sui genomi delle persone provenienti dalle popolazioni sottorappresentate. Purtroppo, però, serviranno ancora molto tempo e impegno per raggiungere questo traguardo”.

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