Muammar Gheddafi in uno scatto del 1990. Foto: Reuters
“Cane pazzo”, “rivoluzionario mondiale”: così lo definiva Ronald Reagan, da formidabile battutista qual era. Muammar Gheddafi è però stato molto di più: brutale e inaffidabile, finanziatore di terroristi e guerriglieri di mezzo mondo, in oltre 40 anni di potere il colonnello (per vezzo non volle mai il titolo di generale) ha vissuto e agito sulla scena mondiale da vero protagonista, talvolta umiliando Paesi molto più grandi e potenti del suo.
A lungo trattato come un paria nel consesso internazionale, Gheddafi fu riammesso con tutti gli onori quando gli attentati dell’11 settembre costrinsero l’occidente a concentrarsi su un nuovo nemico: il fondamentalismo islamico. Con la rinuncia nel 2003 alle armi di distruzione di massa e la collaborazione alla ‘guerra al terrorismo’ il raìs libico tornò dunque a piantare la tenda nelle grandi capitali europee, con le sue mise eccentriche e le ‘amazzoni’, le mitiche guardie del corpo. Fino al trattato di cooperazione e amicizia firmato con l’Italia nell’agosto 2008, che se da una parte sembrò il suo trionfo dall’altra fu forse la condanna a morte. Tre anni più tardi, il 20 ottobre 2011, venne infatti ucciso dai ribelli a Sirte, sua città natale, dopo essere stato catturato e torturato. Le foto del suo corpo martoriato e umiliato, diffuse sui media mondiali, volevano essere un monito contro vecchi e nuovi dittatori, ma si rivelarono ben presto il primo frutto avvelenato delle cosiddette primavere arabe.
Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Elisa Speronello
“Dal 1969, anno in cui prese il potere, Gheddafi è stato molte cose, un nemico scomodo ma anche un alleato indispensabile per l’occidente e in particolare per l’Italia: leader di uno dei maggiori produttori di petrolio del nord Africa, era anche strategico per controllare il flusso di migranti e un grande acquirente di armi”, spiega a Il Bo Live Michela Mercuri, docente di Geopolitica del Medio Oriente all’Università Niccolò Cusano e autrice di Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso (FrancoAngeli, seconda edizione 2019). “Con la caduta di Gheddafi è venuto a mancare il collante che, seppur con molte difficoltà, aveva tenuto in qualche modo unite le oltre 140 tribù libiche e tre regioni molto diverse tra loro come la Cirenaica, la Tripolitania e il Fezzan, grazie al terrore ma anche alla divisione dei proventi petroliferi. Con la Libia si è inoltre sfaldato un perno fondamentale dell'area nordafricana, con conseguenze nefaste anche per i Paesi vicini”.
In parte anche per il nostro, che sul raìs libico in qualche modo aveva sempre puntato: “Per molti anni quelli tra Italia e Libia sono stati rapporti clandestini – continua la storica e analista –. Da un lato l'Italia faceva parte della Nato, dall'altra ha continuato a mantenere con la Libia relazioni soprattutto economiche, dovute in particolare alla grande opera dell’Eni, ma anche politiche diplomatiche. Già nel 1971 Aldo Moro andò a Tripoli per discutere di varie concessioni petrolifere, seguito nel corso degli anni da molti ministri italiani e anche da tanti leader mondiali. Nel 1984 Andreotti incontrò due volte Gheddafi, mentre oggi sappiamo che nel 1986 fu proprio Craxi a salvargli la vita, avvertendolo telefonicamente prima del bombardamento americano che doveva ucciderlo”.
“ Il trattato del 2008 con l’Italia con l’Italia segnò il suo trionfo, ma forse anche la sua la condanna
Un rapporto complesso e contraddittorio culminato nel citato accordo del 2008, in seguito venuto meno con l'intervento internazionale in Libia e l’uccisione di Gheddafi. A metà febbraio 2011 iniziarono gli scontri tra manifestanti e forze di sicurezza libiche, finché il 17 marzo intervenne il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 1973, che stabiliva una no-fly zone e definiva il quadro in cui sarebbero intervenute soprattutto le forze armate di Francia, Regno Unito e Stati Uniti (con l’appoggio riluttante dell’Italia). “Gli aerei francesi iniziarono a colpire già due giorni dopo la risoluzione, con un tempismo davvero sospetto – riprende Mercuri –. In seguito Gheddafi sarebbe comunque riuscito a resistere molto più di quanto ci si aspettava: probabilmente senza intervento internazionale sarebbe rimasto al potere ancora per diverso tempo”.
La morte del dittatore e la vittoria delle milizie ribelli non è comunque riuscita a pacificare al Paese, rimasto a lungo diviso tra il governo di Tripoli, riconosciuto ufficialmente dalla comunità internazionale e guidato fino a quest’anno da Fayez al-Sarraj, e i ribelli guidati dal generale Khalifa Haftar, stanziati soprattutto in Cirenaica. La Libia, così come l’Eritrea, è per molti versi un’invenzione del colonialismo italiano e in qualche modo si è liquefatta con la scomparsa del dittatore: per questo oggi a distanza di 10 anni qualcuno arriva addirittura a rimpiangere un dittatore sì sanguinario, ma sotto molti aspetti anche più prevedibile, quindi affidabile, di chi è venuto dopo: lo stesso Barack Obama nel 2016 ha parlato dell’intervento in Libia come del suo worst mistake.
Per Michela Mercuri “oggi la situazione è esattamente lo specchio di un intervento internazionale fatto senza pensare al dopo, a un piano per stabilizzare del Paese. La Libia è stata lasciata a se stessa, le milizie hanno tenuto le armi e si sono impossessate dei pozzi petroliferi e di porzioni di territorio, creando vuoti che le potenze europee occidentali, che tanto avevano voluto l'intervento, non sono state assolutamente capaci di riempire. In questi vuoti sono entrate potenze geopolitiche come Turchia e la Russia, ma anche gruppi jihadisti come lo Stato islamico e Al Qaeda e una miriade di organizzazioni che gestiscono le rotte di migranti e si occupano di ogni sorta di traffico illegale. Il risultato è che il Paese è ancora un grande campo di battaglia, in cui una comunità internazionale debole sta cercando, tardivamente e con grandi difficoltà, di ripristinare un qualche modello di stabilità. Che però al momento rimane molto lontano, nonostante le elezioni previste per il prossimo 24 dicembre”.