CULTURA

Giotto e gli affreschi al Santo: la “prima” cappella degli Scrovegni

È un caldissimo pomeriggio di giugno, si sfiorano i 40 gradi: Giacomo Guazzini, ricercatore al Kunsthistorisches Institut di Firenze (Max-Planck-Gesellschaft), torna sui luoghi padovani, che da qualche anno sono al centro delle sue indagini, per effettuare ulteriori sopralluoghi. Nulla deve essere lasciato al caso, il suo studio verrà pubblicato in autunno sulla rivista internazionale Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz e il contenuto potrebbe segnare una piccola grande rivoluzione per la storia dell’arte italiana. La ricerca si concentra su Giotto e sulla città, Padova appunto, a cui l’artista ha lasciato in eredità un incredibile gioiello, oggi meta per turisti e studiosi da tutto il mondo, la Cappella degli Scrovegni all’Arena (1303-1305), assieme ad altri affreschi nella Basilica di Sant’Antonio.

Già nel 2015, al Santo, Guazzini aveva scoperto un affresco inedito di Giotto nel tabernacolo della Cappella della Madonna Mora, una Glorificazione della Vergine tra profeti e angeli, fino a quel momento considerata una modesta pittura della fine del Trecento. Ora è tornato a concentrarsi sull’attività di Giotto nell’abside della Basilica, e in particolare nella Cappella di Santa Caterina, dove già da tempo si conoscevano come interventi giotteschi i busti di sante nel sottarco di ingresso. Ma se il ciclo oggi è in gran parte perduto, come è stato possibile rintracciare l’esistenza e ricostruire l’aspetto originale di questa decorazione? La ricerca di Guazzini si è basata sia sull’attento studio di fotografie d’epoca precedenti ai restauri novecenteschi della cappella, sia sull’indagine dei due restauri che ne hanno radicalmente stravolto la decorazione: il primo, tra il 1923 e il 1925, realizzato da Giuseppe Cherubini (incaricato del descialbo e del restauro delle antiche decorazioni trecentesche affioranti dalle vecchie imbiancature), e il secondo, tra il 1981 e il 1983, compiuto da Pietro Annigoni, a cui venne dato l’incarico di ricoprire le pareti laterali con nuovi affreschi. All’analisi delle fotografie e allo studio dei restauri è seguita una campagna di rilievi e ricostruzioni digitali dell’assetto decorativo originario, realizzata in collaborazione con il grafico Enrico Bancone.

Cosa si poteva anticamente ammirare dunque in questa cappella? “Emerge chiaramente una decorazione complessa, in gran parte priva di figure, costituita da vari registri sovrapposti di finte architetture a illusionismo prospettico: lastre marmoree, edicole ad incasso, lunette, pilastri e cornici. Una sorta di continuo trompe-l’oeil architettonico, concepito illusionisticamente in funzione dell’osservatore situato all’ingresso della cappella”, afferma Guazzini. Ma dalla sua indagine, oltre alla conformazione di questo perduto ciclo giottesco, è emersa un’altra novità, ovvero la sicura individuazione del patronato della cappella: la famiglia degli Scrovegni. Dovette essere proprio Enrico, responsabile della famosa cappella dell’Arena, a commissionare questa decorazione, come dimostra il ritrovamento dello stemma familiare nel sottarco d’ingresso: una scrofa azzurra su fondo ocra, visibile nelle foto d’epoca ma presente ancor oggi. Questa decorazione, che Guazzini considera verosimilmente precedente all’Arena, potrebbe configurarsi infatti come un test da parte dello Scrovegni: “È un cantiere sperimentale per il successivo intervento nella cappella all’Arena”, spiega. Giotto in quegli anni era già celebre e richiestissimo, ma Enrico Scrovegni probabilmente volle affidargli la decorazione della cappella familiare al Santo, il santuario cittadino per eccellenza, come una sorta di prova, in vista del lussuoso oratorio privato.

Il complesso ciclo cateriniano, caratterizzato da un sistema complesso e dinamico di modulazioni spaziali, appare il frutto di un importante rinnovamento concettuale operato da Giotto tramite l’adozione di un linguaggio nuovo, ispirato all’arte romana antica, dalla quale dovette essere stato profondamente colpito e affascinato in occasione del suo recentissimo soggiorno a Roma attorno al 1300. Quello recuperato oggi appare come un vero e proprio “anello di congiunzione tra la fase più antica ed ‘eroica’ di Giotto nelle Storie di San Francesco ad Assisi, e quella successiva più ‘classicheggiante’ del ciclo dell’Arena”, caratterizzata da una nuova attenzione per la modulazione dello spazio attraverso la pittura, come perfettamente esemplificata all’Arena dai finti coretti o dalle finte edicole incassate nella parte bassa delle pareti, che ospitano ‘fisicamente’ le personificazioni dei Vizi e delle Virtù. Abbiamo dunque oggi un nuovo tassello, conclude Guazzini ,"che permette di comprendere meglio il percorso dell’artista che, più di ogni altro, attraverso la ricerca di un rapporto nuovo e dinamico tra architettura reale, pittura e osservatore, rivoluzionò a fondo l’arte italiana, determinando la nascita di una pittura nuova e moderna".

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