SCIENZA E RICERCA

Una goccia di petrolio è abbastanza

Non serve un disastro petrolifero per compromettere il piumaggio degli uccelli marini: è sufficiente una goccia di petrolio. Uno strato sottile meno dell’1% dello spessore di un capello. Tanto basta perché le penne diventino permeabili all’acqua, perdano la loro funzione isolante e facciano rischiare all’animale l’ipotermia. Lo hanno scoperto i ricercatori del Marine Ecology Group dell’University College Cork (UCC) in Irlanda, che nello studio pubblicato su Royal Society Open Science, avvertono: anche le perdite esigue di idrocarburi in mare, ma costanti nel tempo, potrebbero minare la sopravvivenza delle popolazioni di uccelli marini già a rischio di estinzione.

Rispetto ad altri animali marini, infatti, gli uccelli sono particolarmente esposti agli sversamenti di petrolio in mare perché trascorrono la maggior parte del loro tempo a galleggiare in superficie, in cerca di cibo o per riposare. E proprio in superficie si concentra il petrolio sversato, prima di affondare dopo diverso tempo. Inoltre il piumaggio degli uccelli marini è un concentrato di tecnologie affinate dall’evoluzione: è isolante e impermeabile, il suo buono stato è fondamentale per la termoregolazione, mantiene gli uccelli al caldo, consentendo loro di immergersi senza inzupparsi e riprendere immediatamente il volo.

Il petrolio disperso in mare, però, mette a repentaglio tutte queste caratteristiche: penetra nel piumaggio, ne modifica la struttura, facendo perdere a penne e piume le loro naturali capacità impermeabili e isolanti. Così, in poco tempo, gli uccelli marini imbrattati dal greggio rischiano l’ipotermia, senza contare che con il piumaggio zuppo e pesante, non riescono a volar via, e anche restare a galla diventa difficile. Inoltre, nel tentativo di liberarsi dal greggio, gli uccelli marini provano a pulirsi con il becco, finendo per ingerire petrolio, con effetti nocivi per reni, fegato e apparato digerente. Spesso, infatti, nei casi di incidenti petroliferi, gli uccelli marini muoiono prima dell’arrivo dei soccorsi umani.

Per capire quanto petrolio è necessario a innescare questo disastro, il team irlandese ha analizzato il piumaggio della berta minore atlantica (Puffinus puffinus): un grande uccello marino migratore, parente dei più famosi albatros. La berta minore atlantica, infatti, è un procellariforme dall’apertura alare di circa 90 centimetri, comune in tutto l’oceano Atlantico. D’estate nidifica lungo le scogliere del Nord Atlantico, dall’Islanda alle coste del Canada, fino alle Canarie. E trascorre l’inverno nell’emisfero Sud, soprattutto in Brasile, Argentina e Cile, migrando per oltre 20.000 chilometri. Proprio per i suoi lunghi viaggi in cui resta per settimane in mare aperto, solcando le onde a caccia di pesci, senza mai toccare terra, la berta minore atlantica è una sorvegliata speciale quando si tratta di inquinamento da petrolio.

Così per testare la resistenza e la permeabilità del piumaggio esposto al greggio, i ricercatori hanno riempito diverse capsule Petri con acqua di mare e in ogni capsula, con una pipetta, hanno fatto cadere alcune gocce di greggio, in modo da formare strati di petrolio di diverso spessore e concentrazione. Dal più sottile appena visibile e traslucido, allo strato più spesso, nero e appiccicoso. Una volta pronte le capsule, hanno adagiato le penne sulla superficie dell’acqua di mare contaminata dal petrolio e hanno atteso.

Il risultato è stato sconcertante: anche strati sottilissimi di greggio, dallo spessore micrometrico (meno dell’1% di un capello), sono sufficienti per modificare la struttura della penna e renderla permeabile. Basta uno strato di soli 0,1 micrometri di spessore per aumentare la permeabilità delle penne; e uno di 3 micrometri, più spesso e scuro, per comprometterla definitivamente. Inoltre, la massa della penna inzuppata dal petrolio aumenta fino al 1000%, influenzando negativamente il carico alare e il dispendio energetico necessario all’animale anche solo per rimanere a galla. 

Non c'è bisogno di grandi disastri, anche i piccoli sversamenti contano

Il problema, dunque, non sono solo i grandi disastri petroliferi, come Exxon Valdez in Alaska nel 1989, il disastro della piattaforma Deepwater Horizon nel Golfo del Messico nel 2010, l’incidente della portarinfuse giapponese a Mauritius di due anni fa, o quello della petroliera Prestige in Spagna, di cui ricorrono i vent’anni questo novembre. Non serve concentrarsi solo sulle “maree nere” che rivestono il mare, imbrattano la costa, avvolgendo uccelli marini, pesci, cetacei e altri mammiferi marini. Dobbiamo fare i conti anche con il rilascio regolare di greggio in volumi moderati, a causa dell’attività di estrazione e trasporto. Il greggio infatti può diffondersi abbastanza rapidamente sulla superficie del mare, facendo sì che vaste aree vengano ricoperte con una concentrazione di petrolio esigua, ma già dannosa per gli uccelli marini.

«L’inquinamento cronico da petrolio su piccola scala è comunemente trascurato nell’ambiente marino, sebbene sia stato dimostrato che ha una serie implicazioni per la sopravvivenza degli uccelli marini» ha sottolineato Emma Murphy, del dipartimento di scienze biologiche, della terra e dell’ambiente dell’University College Cork, autrice principale dello studio. «Abbiamo esaminato una specie, ma i risultati possono essere estesi ad altre specie che si affidano all’impermeabilizzazione del piumaggio per rimanere in salute quando restano in mare per lunghi periodi». Ad oggi ci sono oltre 450.000 macchie di petrolio in mare, che coprono un’area un milione e 510.000 chilometri quadrati. Se vogliamo tutelare la biodiversità marina, e non compromettere definitivamente la sopravvivenza di popolazioni di uccelli marini già a rischio per le attività di pesca o per la distruzione delle loro colonie, dunque, dobbiamo prestare attenzione anche a sversamenti di greggio esigui e continui. Ancora una volta, abbiamo prova che la transizione verso le rinnovabili è sempre più urgente.

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