SOCIETÀ

La guerra sta tornando?

Dulce et decorum est pro patria mori. Per quasi due secoli è stato insegnato che dare il proprio sangue, anche a costo di uccidere e di massacrare, era la più nobile delle azioni per il cittadino moderno: un sogno – poi divenuto incubo – a lungo alimentato dagli Stati nazionali per poi eclissarsi nella ricca e sazia Europa postbellica. Fino ai nostri giorni, nei quali il demone del conflitto armato torna prepotentemente ad affacciarsi negli orizzonti europei, ammesso che ne sia mai uscito.

Ed è proprio l’aggressione all’Ucraina ad aver spinto uno storico come Marco Mondini a scrivere il suo ultimo libro: Il ritorno della guerra, Combattere, uccidere e morire in Italia 1861-2023 (Il Mulino 2024) racconta come fin dall’inizio la nostra storia assomigli a un’unica narrazione fatta di uomini in armi, sacrifici, guerre e combattimenti. “In Italia la guerra è strettamente connessa alla fondazione della nazione – spiega Mondini, che insegna storia contemporanea e history of conflicts presso l’università di Padova –. Per oltre un secolo gli italiani sono andati a morire prima per l’indipendenza e poi per la difesa della patria, credendo che questo facesse parte del patto di cittadinanza: un’attitudine sopravvissuta persino al disastro della seconda guerra mondiale”.

Ma la Costituzione del ’48 non ha ripudiato la guerra?

“Ha ripudiato le guerre di aggressione, ma allo stesso tempo indica chiaramente che la difesa è sacro dovere del cittadino. E non poteva essere diversamente, dato che nasce dalla Resistenza, una guerra che contiene al suo interno molteplici guerre e tanti progetti, ma la cui essenza è la volontà di centinaia di migliaia di uomini, e per la prima volta anche le donne, di mettere a rischio la vita per un’idea di Paese e di democrazia. Senza che gli venga chiesto, ma spesso anzi contro le stesse autorità. D’altra parte, fino all’inizio degli anni ’60, l’Italia è un Paese in pieno riarmo, anche perché presidia il fianco mediterraneo e quello sud-orientale dell’Alleanza atlantica. Si investe ad esempio moltissimo nelle fortificazioni della cosiddetta soglia di Gorizia, con una spesa per la difesa ben oltre il 4% del Pil: oggi ci affanniamo per raggiungere il 2%”.

Poi che succede?

“Nel 1961 ad Assisi si tiene la prima grande marcia per la pace ed è la spia di una profonda svolta sul piano politico e culturale: poco a poco il pacifismo assume le forme di un grande movimento di massa, in grado di fare opinione e spostare consensi. Una parte crescente della popolazione maschile adulta inizia a pensare che la leva sia una tassa non solo inutile e scomoda, ma anche illegittima; negli anni ’80 poi l'obiezione di coscienza diventa addirittura maggioritaria: un fenomeno fino a poco prima inimmaginabile”.

Che c’è di male?

“Di per sé nulla, se non fosse che – anche spesso preferiamo ignorarlo – siamo figli della rivoluzione francese, che ha tolto il monopolio della violenza al principe per consegnarlo ai cittadini. Per oltre due secoli la guerra è stata il momento supremo della sopravvivenza della nazione, che in quanto tale riguardava tutti: i maschi adulti partivano al fronte, tutti gli altri li sostenevano. Poi a un certo punto questa narrativa si è inceppata, anche perché ci siamo trasformati da cittadini in consumatori: i cittadini hanno innanzitutto doveri, i consumatori solo diritti e spesso anche delle pretese. A lungo gli italiani, come gli altri europei, hanno voluto credere che la guerra non fosse non solo impossibile ma anche impensabile. Il 24 febbraio 2022, anche se in realtà i segnali della crisi erano presenti da tempo, ha definitivamente rotto quest’illusione: la guerra è tornata a far parte della nostra quotidianità e a questo dobbiamo rassegnarci”.

In questo momento però non sono le nostre frontiere ad essere minacciate.

“È perlomeno ingenuo pensare che nel 21° secolo un conflitto non ci riguardi, sia sul piano tecnico che politico, solo perché si svolge a poche centinaia di chilometri. La guerra non è solo quella che si combatte sui campi di battaglia ma anche quella cibernetica e ibrida: da questo punto di vista negli ultimi anni siamo stati anche noi oggetto di forme di aggressione e di intimidazione”.

Molti comunque preferirebbero non immischiarsi.

“La leadership russa ha detto chiaramente che il suo obiettivo non è solo l’Ucraina ma la ricostituzione del russkiy mir, che in quanto tale comprenderebbe Paesi che, come i Baltici, fanno parte della nostra coalizione politico-militare. Putin è permanentemente in conflitto dal 2007 e il suo regime, come per certi versi il fascismo, deve continuare a fare la guerra per rimanere in sella. In questo sta l’equivoco di parte del nostro pacifismo: con un leader così, che peraltro ha stracciato tutti i trattati di pace che ha firmato, non si può ragionare con le nostre stesse categorie costi/benefici”.


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Ha comunque l’atomica.

“Ma non è un suicida e sa bene che la Russia non ha le risorse militari e soprattutto economiche per reggere uno scontro diretto con la Nato. La guerra di massa moderna è una funzione dell’economia, non dovremmo mai dimenticarlo, e la tanto conclamata superiorità militare russa negli anni scorsi è stata impiegata solo in conflitti asimmetrici, contro avversari molto più deboli e disorganizzati. Lo scontro con un vero esercito regolare ben motivato come quello ucraino, anche se molto meno armato, è stato un colossale fiasco. Detto questo, molto dipenderà dalle elezioni presidenziali in America. Una vittoria di Trump probabilmente comprometterebbe la tenuta della Nato.

Non c’è insomma alternativa alla violenza?

“Più che altro bisogna tornare a pensare alla sicurezza in termini di responsabilità collettiva: lo abbiamo già visto con la pandemia, che non a caso ha attinto largamente all’immaginario e alla terminologia militare. Tutto però deve ripartire dal nesso tra individuo e comunità. Paesi più piccoli come Svezia e Danimarca hanno reintrodotto la coscrizione obbligatoria, estendendola alle donne. Noi per il momento non andiamo verso quella direzione, ma dobbiamo comunque pensare a come allargare la platea delle persone mobilitabili in caso di necessità, ad esempio con un più ampio ricorso al personale della riserva”.

Per concludere, proprio gli italiani non farebbero bene a tenersi alla larga da armi e battaglie?

“Che gli italiani che non sappiano combattere è un antimito fin dai tempi di Erasmo da Rotterdam, anche se durante il Rinascimento i più grandi professionisti della guerra venivano dalla Penisola. Certi luoghi comuni però vanno anche smontati; innanzitutto perché non ci sono popoli che combattono meglio o peggio: i tedeschi, che pur avendo perso due guerre mondiali hanno fama di popolo guerriero, a partire dal 1945 hanno vissuto una demilitarizzazione culturale così profonda da compromettere l’attuale efficienza della Bundeswehr. C’è però un altro motivo per cui è ingiusto oltre che ingrato insistere sulla natura imbelle degli italiani: il fatto che questi, nonostante e spesso anche contro generali e politici non all’altezza, abbiano comunque continuato a fare quello che ritenevano il loro dovere, facendosi massacrare pur di resistere sul Piave come a Cefalonia, ma anche in guerre di aggressione sbagliate come quelle del fascismo”.

Un aspetto quasi schizofrenico della nostra storia.

“…che non può essere spiegato solamente con la costrizione dei tribunali militari e le decimazioni, e che finora è stato sorprendentemente poco indagato dai colleghi storici. Per questo ho voluto approfondirlo in questo libro”.

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