SOCIETÀ

Haiti, il molteplice disastro

Dalle macerie di Haiti sale ancora oggi un grido disperato: «Abbiamo bisogno di aiuto». La “perla nera” dei Caraibi è in ginocchio, di nuovo. L’ultimo, devastante terremoto del 14 agosto scorso (magnitudo 7.2, epicentro vicino a Petit Trou de Nippes, circa 125 chilometri a ovest della capitale Port-au-Prince) ha lasciato dietro di sé la solita scia di morte e distruzione: oltre duemila vittime, dodicimila feriti, un numero imprecisato (e verosimilmente altissimo) di dispersi, in un impasto di detriti e dolore, di fango e povertà. E una disperata richiesta di soccorso per centinaia di migliaia di persone che hanno perso tutto, per l’ennesima volta. L’Unicef stima che 1,2 milioni di persone (su una popolazione di 11 milioni) siano state colpite dalla violenza del sisma, compresi 540mila bambini per i quali, al momento, non è garantito un riparo sicuro, né acqua potabile, né cibo, né un’adeguata assistenza sanitaria. Perché non bastava il terremoto: lunedì scorso s’è abbattuta sull’isola caraibica (soprattutto nel suo lembo a sud-ovest) la tempesta tropicale Grace, che oltre a rallentare i soccorsi ha provocato inondazioni e frane. Nei dipartimenti più colpiti (Grand’Anse, South, Nippes) la situazione degli sfollati è estremamente grave. Le ultime stime indicano che oltre 60mila case sono state distrutte e più di 76mila hanno subito danni. Alcune abitazioni sono definitivamente cadute proprio per la furia della pioggia e del vento. Nella campagna attorno al comune di L’Asile, in un tratto lungo 16 km, è crollato tutto: case, baracche, chiese, negozi, scuole, nulla è rimasto in piedi. All’ospedale comunale il terremoto ha lesionato i reparti di ostetricia e di pediatria. Gran parte delle sale operatorie è fuori uso. Nelle zone più colpite si segnalano prolungati black-out, saltate le linee telefoniche. Poi ci sono i danni ai ponti, agli ospedali, alle scuole. Cumuli di macerie e di disperazione, tra mani tese e la corsa dei soccorritori. E la paura di nuove scosse, che ha spinto migliaia di famiglie a dormire all’aperto, senza alcun riparo dalle intemperie.

Disastri ciclici, naturali e politici

Era già accaduto nel 2010, un violentissimo terremoto che provocò oltre 230mila vittime e un crollo dell’economia mai più recuperato. E, pochi mesi dopo, l’isola fu colpita da una devastante epidemia di colera che uccise quasi diecimila persone. Haiti è un paradiso di dannazione: la patria della magia nera e dei riti voodoo, è uno dei paesi più poveri del mondo, il più povero delle Americhe. Adagiato sulla linea di faglia di due enormi placche tettoniche, la nordamericana e la caraibica: grandi pezzi di crosta terrestre che scivolano l’uno sull'altro nel tempo, il che provoca scosse telluriche di straordinaria potenza distruttiva (quello del 2010 è il settimo nella classifica dei terremoti che hanno provocato più morti). Poi ci sono le tempeste tropicali, gli uragani: nel 2004 il passaggio di Ivan e Jeanne lasciò sul terreno oltre tremila vittime e 250mila sfollati. Nel 2008 quattro tempeste tropicali si abbatterono sull’isola tra agosto e settembre (800 morti). L’uragano Sandy, nel 2012, sfiorò appena Haiti (“soltanto” 110 morti e 200mila sfollati). Ma nel 2016 l’uragano Matthew, il più potente ciclone tropicale atlantico del decennio secondo i meteorologi, la colpì in pieno (altri tremila morti). Poi Harvey, Irma e Maria, nel 2017. Come vivere in un permanente stato di guerra, e a vincere è sempre la natura. A questo bisogna aggiungere un’endemica instabilità politica, che tra dittature (della famiglia Duvalier, fino al 1986), colpi di stato (nel 2004 fu deposto il presidente Jean-Bertrand Aristide), brogli elettorali e la violenza incontrollata delle gang armate (con quotidiani sequestri di persona e sparatorie, perfino un’evasione di massa con decine di morti dal carcere Croix-des-Bouquets di Port-au-Prince, a febbraio), ha vissuto il suo culmine nella notte tra il 6 e il 7 luglio scorsi, quando il presidente haitiano Jovenel Moïse è stato assassinato da un gruppo armato mentre si trovava nella sua residenza a Port-au-Prince. Indagini che ancora non hanno messo in luce i mandanti, mentre l’esecuzione sarebbe stata affidata a un gruppo di mercenari colombiani, ovviamente con la complicità di alcuni haitiani vicini a Moïse.

Gli aiuti finiscono nelle tasche sbagliate

Haiti è un’isola in preda al caos, senza pace, condannata a un’interminabile sofferenza. Ma, soprattutto, Haiti ha bisogno di aiuti, come ieri, e probabilmente come ancora sarà domani. L’Organizzazione per le Nazioni Unite ha già stanziato il primo pacchetto di 8 milioni di dollari («E aumenteremo la nostra risposta per le aree più colpite», ha promesso il segretario generale dell’Onu, Guterres), ma qui non si tratta soltanto di denaro: è una questione di considerazione, di attenzione, che si risveglia sempre troppo tardi, quando le catastrofi naturali colpiscono duro. Un paese di 11 milioni di abitanti che finora ha ricevuto 500mila dosi di vaccino contro il Covid-19, nonostante le richieste siano state, e siano tuttora, enormemente più alte. E, come riporta il New York Times, secondo la Pan American Health Organization, un'agenzia sanitaria internazionale specializzata per le Americhe, appena 21mila haitiani hanno ricevuto vaccini. Un paese dove il servizio sanitario arranca dietro alle continue emergenze, dove la malnutrizione infantile corre velocissima (secondo l’Unicef 86mila bambini sotto i 5 anni, nel 2020 erano la metà: e qui non c’entrano i terremoti e gli uragani). Anche nel 2010 arrivarono aiuti internazionali, eppure il paese è rimasto ferito, mutilato, dalle sciagure e dalla corruzione: «Non ripeteremo le stesse cose che sono state fatte nel 2010», ha dichiarato lunedì scorso l’attuale primo ministro, Ariel Henry. «Sono state fatte in passato molte donazioni al paese e molti soldi sono stati spesi senza vedere l'impatto». Come dire: sono finiti nelle tasche sbagliate, non certo degli haitiani in difficoltà, non certo nei villaggi sperduti, dove la povertà si sente perfino dall’odore. Villaggi dove la mano del governo centrale non è mai arrivata, dove la sfiducia nelle istituzioni è totale. Le strade (chiamiamole così) che li collegano alla capitale sono spesso in mano alle bande armate, che fanno “deragliare gli aiuti”, come scrive il New York Times. I ponti aerei sono sospesi per la tempesta tropicale. Nel villaggio collinare di Toirac non s’è ancora presentato un solo delegato delle istituzioni. Qui il terremoto ha fatto crollare la chiesa, e venti persone sono rimaste sotto le macerie. «Non mi aspetto alcun aiuto, siamo da soli. Nessuno si fida di questo governo», ha detto ai giornalisti del NYT Michel Milord, un agricoltore di 66 anni a Toirac, che ha perso la moglie e la casa nel terremoto. 

Il ricatto delle gang: centomila dollari per far passare gli aiuti

Tuttavia l’urgenza, oggi, resta quella umanitaria. La Direzione Generale della Protezione Civile haitiana (DGPC) sostiene che 137mila famiglie sono state colpite nei dipartimenti del Sud dell’isola, soprattutto Grand’Anse e Nippes. Circa 500.000 persone, pari al 40% della popolazione che vive in quei dipartimenti, hanno bisogno di assistenza umanitaria di emergenza. L’Unicef è in piena attività per fornire teloni per rifugi di emergenza, latrine e docce, serbatoi  per la distribuzione sicura dell’acqua potabile, compresse per il trattamento dell’acqua, sapone e kit igienici. Gli aiuti arrivano, ma a rilento. Come i soccorsi: dagli edifici crollati continuano a essere trovati corpi, mentre gli ospedali sono invasi da migliaia di pazienti, molti dei quali sono costretti ad aspettare il loro turno all’esterno. Una task force del Comando meridionale degli Stati Uniti è intervenuta per aiutare la popolazione di Haiti, con gli equipaggi degli elicotteri della Guardia Costiera che stanno tentando di trasportare i feriti in altre strutture mediche del paese.

Ma la rabbia è ormai al limite tra gli haitiani. «La gente sta diventando aggressiva», ha ammesso Jerry Chandler, capo dell’ufficio della protezione civile di Haiti. Una folla che si era radunata all’esterno del piccolo aeroporto di Les Cayes, dove atterrano i voli carichi di aiuti umanitari, è stata dispersa dalle guardie di sicurezza con colpi di pistola sparati in aria. Mercoledì due convogli umanitari sono stati bloccati lungo la strada da gruppi di contadini che reclamavano disperatamente aiuti. Ma c’è anche chi si è già organizzato, come i banditi di Martissant, che controllano la Route National 2, che dalla capitale porta a sud del paese. Una religiosa italiana, suor Marcella Catozza, in missione ad Haiti dal 2000, ha portato la sua drammatica testimonianza al periodico cattolico Tempi.it: «Stanno impedendo agli aiuti di arrivare nelle zone più colpite. Ora sembra che i banditi di Martissant stiano trattando con il governo: dopo aver negoziato una tregua con l’Onu per le prime squadre di emergenza, si parla di una richiesta di centomila dollari per far passare i convogli umanitari. È gente spietata che opera nell’assoluta impunità da mesi in un crescendo di rapimenti, sparatorie, estorsioni, vendette, violenze culminate a giugno nei colpi di arma da fuoco contro l’ospedale nella baraccopoli di Medici senza frontiere». Secondo Etzer Emile, un economista haitiano e professore alla Quisqueya University di Port-au-Prince, gli impatti di questo nuovo terremoto porteranno a una povertà ancora maggiore per la regione sudoccidentale del paese: «Il terremoto ha appena dato un colpo fatale a un’economia regionale già in ginocchio» ha affermato il professor Emile. «Gli aiuti esteri purtroppo non aiutano mai a lungo termine. Il sud-ovest avrebbe invece bisogno di attività che possano aumentare la capacità economica di posti di lavoro e garantire migliori condizioni sociali».

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