SOCIETÀ

Le immagini in tempo di guerra (e lo sguardo sulle conseguenze dei conflitti)

La Prima Guerra mondiale, la Guerra Civile spagnola, la Seconda Guerra mondiale, la Guerra d’Algeria, la Guerra del Vietnam, il conflitto serbo-bosniaco, i conflitti in Medio Oriente, le guerre dell’Africa, l’attacco alle Torri Gemelle e la conseguente Guerra al Terrore. Ora il conflitto in Ucraina. Tutte guerre raccontate attraverso le immagini. L’invenzione della fotografia ha trasformato la rappresentazione del conflitto.

Su Il Bo Live l'intervista a Walter Guadagnini, direttore di Camera, Centro italiano per la fotografia con sede a Torino, e curatore della mostra Questa è guerra! 100 anni di conflitti messi a fuoco dalla fotografia allestita nel 2015 al Palazzo del Monte di Pietà di Padova. 

Quale il rapporto tra guerra e fotografia, cosa rappresentano i reportage fotografici nella narrazione del conflitto? Che ruolo rivestono?

"Dalla guerra di Crimea del 1855 - luogo che oggi assume una nuova tragica attualità, corsi e ricorsi... - fino a quella del Vietnam, le fotografie scattate durante le guerre hanno rappresentato la principale fonte visiva del conflitto: questa fonte però ha rivestito ruoli diversissimi a seconda dei tempi e a seconda degli usi. Diciamo che quelli primari sono stati senza dubbio quelli di documentazione e di propaganda, ed è bene ricordare che uno non esclude l'altro (le foto di Chaldej nella Berlino caduta sono entrambe le cose, per dire). Dagli anni Ottanta in avanti la centralità della fotografia è progressivamente diminuita, e il suo ruolo è divenuto sempre più quello di uno strumento atto a riflettere sulle guerre, prima ancora che a documentarle. Oggi il ruolo della fotografia professionale è oggettivamente marginale nella narrazione immediata dei conflitti (in realtà, delle guerre sul terreno ormai non si vede più nulla, tra censure e autocensure dai tempi della prima guerra irachena siamo telespettatori di spettacoli pirotecnici che ricordano curiosamente e cinicamente i resoconti visivi dei festeggiamenti della fine dell'anno nei vari angoli del mondo), mentre è fondamentale nella creazione della memoria di questi eventi e può fornire un utilissimo apporto alla riflessione sulle loro cause e sulle loro conseguenze, come insegna l'opera di Gilles Peress".

Condivido con lei un paio di riflessioni, mi piacerebbe conoscere il suo punto di vista. Le immagini superano il limite di quel che viene detto e scritto, perché possono raccontare al mondo tutta la verità, mostrandola, non sono parole, non possono essere interpretate. E, ancora, le fotografie svelano l'orrore della guerra. Cosa ne pensa, è d'accordo? In questo senso, vorrei anche sapere quali sono per lei i fotografi di guerra più significativi, quelli che hanno fatto la differenza, che sono riusciti a documentare davvero i conflitti. E perché.

"Iniziamo col dire che non sono assolutamente d'accordo con la prima frase, e ho forti dubbi anche sulla seconda. Le fotografie non solo possono essere interpretate, ma la loro interpretazione dipende fortemente dal contesto in cui sono viste. Sono noti i casi in cui la stessa fotografia veniva utilizzata per scopi opposti, comunicando messaggi diversissimi solo attraverso la modificazione della didascalia (un eroe caduto in guerra può senza difficoltà diventare un traditore ucciso mentre tentava di scappare, dipende da chi scrive la didascalia e perché...). E naturalmente bisogna intendersi sul significato che conferiamo a un termine così impegnativo come quello di libertà, pensate proprio al caso attuale dell'invasione dell'Ucraina, che da Mosca è narrata come un'operazione nata proprio per liberare etnie oppresse. Quindi, ammettendo la fallibilità della fotografia e della lingua, cerchiamo di capire in cosa possa consistere l'efficacia di una foto di argomento bellico. Per quanto mi riguarda, e prendendo in considerazione solo immagini dalla Seconda Guerra mondiale in poi, ho sempre trovato straordinario un lavoro di August Sander che metteva a confronto le immagini da lui scattate a Colonia, prima della guerra, con gli scatti realizzati subito dopo il conflitto, terribili nella loro semplicità, anche perché realizzate da un fotografo tedesco, che però a sua volta aveva sofferto sulla pelle dei propri familiari le persecuzioni naziste. E a proposito di edifici, continuano a emozionarmi, come la prima volta che le ho viste, le fotografie di Gabriele Basilico di Beirut, sono lucidissime e commoventi insieme. Le fotografie di Lee Miller dei gerarchi nazisti suicidi sono agghiaccianti, anche perché vengono pubblicate su una rivista come Vogue e sono realizzate da una raffinatissima fotografa che si muove abitualmente tra surrealismo e moda, è un corto circuito che solo l'eccezionalità della guerra può attivare. Poeticissima è l'immagine della stessa Miller nella quale si vede la cantante Irmgard Seefried che si esibisce in un'aria della Madama Butterfly tra le macerie del teatro dell'Opera di Vienna, drammatica ma insieme con una speranza dentro, sembra di sentire prima il rumore delle bombe e poi il canto. Quelle di Eve Arnold nelle retrovie in Vietnam, anche se il lavoro più straordinario sulla guerra probabilmente rimane quello sempre realizzato in Vietnam da Philip Jones Griffiths, un lavoro realizzato non a caso nel corso di anni e anni. Come si intuisce, personalmente mi interessano di più le fotografie che raccontano le conseguenze della guerra, per questo motivo credo che un capolavoro assoluto sia la serie di Shomei Tomatsu su Nagasaki, realizzate vent'anni anni dopo lo scoppio del lancio della bomba atomica sulla città giapponese, nelle quali si capisce bene l'incancellabilità della tragedia. Tra i contemporanei, penso che, in modi diversissimi ma entrambi efficaci, Alfredo Jaar e Richard Mosse abbiano trovato le chiavi per fotografare la guerra in un mondo oberato dalle immagini in due lavori come The eyes of Gutete Emerita e The Enclave".

Tra i contemporanei, penso che, in modi diversissimi ma entrambi efficaci, Alfredo Jaar e Richard Mosse abbiano trovato le chiavi per fotografare la guerra in un mondo oberato dalle immagini in due lavori come The eyes of Gutete Emerita e The Enclave Walter Guadagnini

Ci sono immagini diventate simbolo di un preciso conflitto e al tempo stesso di tutti i conflitti del mondo. Tra queste la fotografia di Robert Capa che ritrae il miliziano colpito a morte durante la Guerra Civile spagnola, una immagine da sempre al centro di un dibattitto relativo alla sua autenticità. Le chiedo: di fronte a una foto "costruita" il valore, il senso, il messaggio della narrazione del conflitto si perde completamente? Oppure no? Qual è il confine tra immagini che documentano fatti reali – la verità della morte - e la costruzione di una narrazione per condannare l'orrore della guerra?

"Ho sempre ritenuto la querelle sulla foto di Capa un affascinante caso giudiziario - come dimostra anche il recente volume di Vincent Lavoie, L'Affaire Capa. Processo a un'icona - ma da un punto di vista fotografico non mi ha mai interessato la querelle sulla presunta falsità di quell'immagine. È dai tempi del cecchino morto fotografato da Alexander Gardner nella Guerra Civile americana - il cui cadavere venne spostato dalla sua posizione originaria per rendere la composizione più fotogenica - che la fotografia di guerra vive in questa condizione, come d'altra parte tutta la fotografia dalla sua nascita. Allora la domanda da porsi non è se Capa abbia o no costruito la foto, o persino se l'abbia modificata, ma se la costruzione o la modifica abbiano alterato la realtà che quella foto vuole raccontare, se manipolando la fotografia ha manipolato anche le conoscenze di chi avrebbe visto quella foto, se ha ingannato il suo pubblico modificando la realtà a fini propagandistici. Ecco, io penso che in questi due casi non ci si trovi davanti a questa situazione, i miliziani morti in quel luogo in quei giorni in Spagna c'erano, e il cecchino a Gettysburg morto era: decidere di rendere più efficace un'immagine attraverso delle pratiche di quella che oggi chiameremmo post-produzione o di messa in scena è solo un modo per rendere il messaggio più efficace. Paradossalmente, è più eticamente discutibile la scelta all'apparenza più innocua di Chaldej di eliminare uno dei due orologi dal polso del soldato che innalza la bandiera rossa sul Reichstag, perché così facendo il fotografo impedisce allo spettatore di vedere e conoscere gli effetti di una pratica condannabile, quella di portare via gli oggetti dai cadaveri dei nemici. Ma il tema è comunque complesso, e ha una parziale soluzione nell'alfabetizzazione fotografica di quante più persone possibili: se tutti accettassimo che la fotografia non è l'impronta della realtà ma è un'immagine, avremmo già fatto un primo passo avanti".

Personalmente mi interessano di più le fotografie che raccontano le conseguenze della guerra Walter Guadagnini

Oggi, con la guerra in Ucraina, la fotografia passa attraverso i social. Quali i rischi di questa "sovraesposizione" del conflitto? E quali invece i vantaggi? Abbiamo certamente la possibilità di seguire la guerra da vicino, possiamo "vedere" moltissimo, essere subito testimoni di eventi, spesso presentati senza filtri, è sempre un bene?

"Parafrasando una famosa battuta di un film sul giornalismo: è la stampa, bellezza... Strumenti nuovi, nuove questioni. Anche se poi non bisogna mai dimenticare quello che scriveva Bertolt Brecht, oggi piuttosto accantonato perché troppo comunista, ma intellettuale di straordinaria profondità: Dalle nuove antenne uscivano le vecchie idiozie. Ecco, allora, da un lato bisogna capire cosa si dice, dall'altro in quale contesto lo si dice. Certo, la necessità prima è quella di avere gli strumenti per filtrare tutti questi messaggi, non c'è più qualcuno che lo faccia per noi, può essere un bene ma può anche essere molto pericoloso: pensate al percorso che fa una fotografia prima di essere pubblicata su un giornale, dal fotografo alla redazione, al photoeditor, al caporedattore e infine al direttore, diciamo ad esempio che almeno il rischio che si tratti di una bufala è notevolmente minore rispetto a un'immagine che arriva direttamente dal suo autore. D'altra parte, è un dato di fatto che quasi tutte le immagini epocali degli ultimi anni sono realizzate da non professionisti, da persone che erano sul luogo dell'evento e spesso ne erano protagoniste: penso al caso delle torture di Abu Ghraib, non ci fossero stati quei soldati - dei quali non si sa dire se sia maggiore la criminalità o l'idiozia - che mandavano in giro le fotografie delle loro bravate, noi probabilmente non ne avremmo saputo nulla. In una mostra che ho fatto proprio a Padova qualche anno fa dedicata alla guerra (Questa è guerra! a Palazzo del Monte di Pietà, ndr) avevo scelto di chiudere con una sala dedicata a Mihailov e alle sue foto sulla rivoluzione in Ucraina del 2014 e con la foto di Pete Souza della sala ovale del Pentagono con Obama, Hillary Clinton e la squadra della sicurezza nazionale che guardano su uno schermo - che peraltro noi non vediamo - le fasi dell'operazione che porta alla morte di Bin Laden: questo e qualche video con delle esplosioni è quello che noi sappiamo visualmente di quella vicenda, un po' come essere tornati prima del 1839, anche se tanti fotografi continuano a essere sui campi di battaglia e a rischiare la vita per portarci delle immagini, un altro dei tanti paradossi di questi nostri anni".

Nel 2015 Camera dedicò la sua prima esposizione a Boris Mikhailov. Si intitolava Boris Mikhailov: Ukraine, una retrospettiva focalizzata su un tema unico: l'Ucraina, appunto, la terra d'origine del fotografo nato a Kharkiv nel 1938, protagonista della prima stagione delle neoavanguardie sovietiche negli anni Sessanta e Settanta, trapiantato a Berlino dopo la caduta del Muro ma ancora strettamente legato alla sua terra. Oggi, considerando quanto sta accadendo proprio in quel Paese, che emozioni ritrova nella memoria di quella mostra? Che Ucraina raccontava Boris Mikhailov?

"Premesso che quella era stata la mostra inaugurale di Camera, curata da Francesco Zanot sotto la direzione di Lorenza Bravetta, e che dunque io l'ho vissuta solo come spettatore, non ci si può certo dimenticare di quell'esperienza, anche se per l'appunto io personalmente rimango più legato alla scelta che feci a Padova. Ovviamente ci abbiamo pensato molto in questi giorni, subissati peraltro di telefonate di giornalisti che volevano intervistarlo, ci siamo a lungo interrogati se utilizzare o no il poster che era stato realizzato in occasione della mostra - una bellissima linguaccia, che sarebbe una risposta perfetta a quello che sta accadendo - e così si riaprono le questioni sull'utilizzo delle immagini in tempo di guerra, e si torna alle domande e alle risposte precedenti. L'Ucraina che Mikhailov ha raccontato per oltre cinquant'anni è sfaccettata, non è una sola, c'è quella sovietica invasa dal colore rosso di una vecchia serie degli anni Sessanta e Settanta, c'è quella virata in seppia o in blu dei balli popolari, quasi elegiaca, e c'è quella tragica di Case History, immediatamente successiva alla caduta dell'Impero sovietico, con una povertà devastante unita alla mancanza di un collante ideale di qualsiasi genere, che però Mikhailov riesce a descrivere con adesione e persino con ironia, con quella punta di humour nero che nel suo lavoro è spesso presente. E poi c'è appunto l'Ucraina della rivoluzione arancione, di Piazza Maidan, dove si trovano purtroppo le radici di quello che sta succedendo oggi, dove si afferma quel distacco che Mosca evidentemente non vuole tollerare. Ma mi sembra giusto concludere questo nostro dialogo citando le parole di Francesco Zanot al termine del bel testo che accompagna il volume edito in occasione della mostra, dal titolo significativo di Diary: Gli anti-eroi, invece, non si contano neppure. Si aggirano in qualsiasi angolo di queste fotografie trascinandosi dietro i loro corpi imperfetti. Alcuni sfidano il sistema, altri ne costituiscono le vittime sacrificali. Inutile, credo, citare ancora il Brecht più noto, sul paese che ha bisogno di eroi..."

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