CULTURA

Iniziati a Santo Stefano i lavori per recuperare l’antico storico penitenziario

C’era una volta, millenni fa, un minuscolo isolotto di un piccolo arcipelago del Mediterraneo non distante dalla Roma antica e moderna. C’era una volta, secoli fa, un sofisticato carcere su quest’isola con poca terra e poche specie fertili, costruito da monarchi per controllare scientificamente criminali e politici avversari. C’erano una volta, da decenni, le abbandonate vestigia fatiscenti di quella struttura sull’isola disabitata, e un’area marina protetta intorno per difendere valori ambientali e naturalistici. Forse è proprio giunto il momento di intervenire pubblicamente sul complesso della storia narrata, questa svolta è in corso.

L’isola vulcanica di Santo Stefano fa parte con Ponza (la più grande, 7,5 km²) e Ventotene (1,89) delle Isole Ponziane: è la più piccola, solo 29 ettari, molto meno di un chilometro quadrato, forma quasi circolare, oltre 500 metri di diametro. La storia antica, moderna e contemporanea dell’isola si mescola e confonde con quella proprio di Ventotene, meno di due chilometri a ovest, ben conosciuta nel Neolitico, soprattutto come riserva di ossidiana, il materiale usato per lame e utensili, utile tappa sulle rotte tirreniche di vari popoli e gruppi umani (compresi i greci), già sede di esilio forzato in epoca romana (Giulia, Agrippina Maggiore, Flavia Domitilla). Nel periodo romano entrambe avevano diversa varia denominazione: da una parte Pandateria, Pandotira (dal greco), Pantatera, Ventatere, Bentetien, Vendutena, Ventotiene quella che è Ventotene; dall’altra Partenope (dal greco), Palmosa, Dommo Stephane, Borca quella che è Santo Stefano, che fa oggi pure amministrativamente parte del comune di Ventotene.

Da sempre poco e male abitabile in modo residenziale per le scogliere ripide e i rari punti di complicato approdo (da scegliere comunque a seconda dei venti), oggi Santo Stefano è assolutamente disabitata ma precariamente visitabile. L'unico edificio ancora presente sull'isola è l’antico carcere, la struttura denominata Ergastolo, all’inizio mirabilmente circolare con 99 celle (celle poi sdoppiate, numero poi ulteriormente cresciuto per ristrutturazioni e aggiunte di una sezione), fatto edificare a fine Settecento da Ferdinando IV di Borbone, restato in vario uso sotto successive forme di stato e governo fino al 1965. La svolta verso l’isola carcere (esclusivamente carcere) si ha con il Regno delle Due Sicilie. Ferdinando I decise di installare sull'isola un penitenziario a struttura cellulare che servisse a separare fortemente i detenuti dal resto della società. Incaricò del progetto e della realizzazione nel 1794-97 il maggiore del genio militare Antonio Winspeare, in collaborazione con l'architetto Francesco Carpi.

L’istituto penitenziario di Santo Stefano ha le proporzioni del Teatro San Carlo di Napoli ed è una variante concreta della proposta di nuovi carceri emersa dai principi illuministici propugnati dal filosofo inglese Jeremy Bentham (1748-1832), secondo il quale "nei tentativi di recupero dei detenuti” sarebbe “possibile ottenere il dominio di una mente sopra un'altra mente” tramite un’adeguata struttura edilizia, una sorta di carcere ideale, denominato Panopticon: tutti i detenuti, rinchiusi nelle proprie celle disposte a semicerchio, in teoria potrebbero essere individualmente sorvegliati da un unico guardiano posto in un corpo centrale, senza peraltro loro sapere se in quel momento risultano osservati o meno. Le celle avrebbero avuto l’unica apertura rivolta verso il centro della struttura, cieche verso il mare. L’isola carcere venne destinata a ergastolani e condannati ai ferri, appunto. Ve ne furono simili esempi in varie parti del mondo, addirittura in Australia nella Rottnest Island, una prigione per gli aborigeni. Così, la dissuasione a fare il male sarebbe derivata dalla consapevolezza di essere costantemente sotto controllo. Ciò nonostante, non mancarono tentativi di evasione. 

Il 26 agosto 1797 nel nuovo carcere vi fu un tentativo di evasione di massa, il quale poté essere domato solo grazie all'arrivo di rinforzi da Napoli e lasciò sul terreno due morti e numerosi feriti. Un altro tentativo fu effettuato nel 1798, e l'anno seguente la struttura accolse progressivamente una parte dei condannati per i moti rivoluzionari del 1799. Identica sorte ebbero i rivoluzionari del 1848, tra cui si annoveravano numerose personalità di rilievo, come Silvio Spaventa e Luigi Settembrini (che vi rimase tristemente dal 1851 al 1859). Nell’ottobre 1860 vi fu una nuova e violenta rivolta, durante la quale gli 800 carcerati, principalmente camorristi della Bella Società Riformata che erano stati esiliati nell'isola dal governo borbonico, presero il controllo del carcere. 

L'occasione fu data dalla partenza del distaccamento dell'Esercito delle Due Sicilie per unirsi alla resistenza organizzata a Capua dopo l'invasione sarda. Una volta messe le quaranta guardie in condizione di non nuocere, i camorristi istituirono la cosiddetta Repubblica di Santo Stefano, le cui redini furono offerte al capintrito (capobanda) Francesco Venisca. L'effimera Repubblica ebbe il tempo di dotarsi di uno statuto di convivenza tra gli ex detenuti e gli abitanti dell'isola, ma finì nel gennaio 1861, disfatta dall'arrivo delle truppe sarde a ripristinare l’ordine e l’isolamento detentivo. In quegli anni di passaggio di regno anche in altri carceri (come a Favignana) si ristrutturano dinamiche e gerarchie interne al micromondo carcerario, soprattutto per il ruolo della criminalità organizzata.

Anche dopo la caduta del Regno delle Due Sicilie, il carcere mantenne il proprio ruolo sotto la monarchia italiana. In questo periodo, il carcere continuò ad accogliere detenuti comuni e speciali, tra cui il più noto capobrigante post-risorgimentale Carmine Crocco e l'anarchico Gaetano Bresci che aveva ucciso re Umberto I di Savoia e con ogni probabilità fu impiccato in cella dai secondini e seppellito frettolosamente. Durante il ventennio fascista il carcere continuò a essere un luogo privilegiato per la collocazione di dissidenti politici. Detenuti famosi di questo periodo furono Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro, Rocco Pugliese e Sandro Pertini (il quale ne parlò in aula già nel 1947, ricordando come lì vi fu “suicidato” Bresci) che più tardi come noto è divenuto il settimo Presidente della Repubblica Italiana (1978-1985). 

Altri antifascisti furono confinati dal regime sull'isola di Ventotene, ma non furono mai carcerati a Santo Stefano: per esempio Giuseppe Di Vittorio, Giorgio Amendola, Lelio Basso, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni. Proprio e soprattutto a questi ultimi tre si deve la redazione del cosiddetto Manifesto di Ventotene che nel 1941, in pieno conflitto mondiale, chiedeva l'unione dei paesi europei e costituirà, negli anni successivi (la prima distribuzione clandestina risale al gennaio 1944), il riferimento ideale cui guarderanno in molti per il successivo processo di integrazione continentale, proseguito per decenni e ancora in corso. 

Al termine della seconda guerra mondiale, il carcere borbonico riprese la sua funzione di severa pena detentiva nei confronti dei delinquenti comuni. Significativo fu il periodo, otto anni dall’estate 1952 all’estate 1960, in cui fu direttore Eugenio Perucatti (1910), che riuscì a cambiare profondamente le strutture, le regole e l'atmosfera stessa del penitenziario. Trovandosi di fronte al regolamento obsoleto (peraltro proprio di tutti i carceri) si adattò a violarlo palesemente: la prima cosa che fece fu far leggere ai suoi collaboratori il terzo comma dell'articolo 27 della Costituzione italiana, in vigore da appena cinque anni: “La responsabilità penale è personale. L'imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato.” Nel 1956 Perucatti espresse idee e proposte complessive in un volume significativamente intitolato: “"Perché la pena dell'ergastolo deve essere attenuata".

L’istituto di Santo Stefano è stato definitivamente chiuso nel 1965 e, da allora, la struttura è andata incontro a una lenta e progressiva decadenza. Benito Lucidi era stato l'unico detenuto riuscito a evadere in tempi moderni, nel 1960. Nel 1981, sopra il portone di accesso alla fortezza, fu apposta una grande lapide in marmo candido del Monte Altissimo (Alpi Apuane) per ricordare i patrioti dell'Ottocento e i prigionieri dell'epoca fascista. All'interno del penitenziario è stato girato il film L'urlo (1970) di Tinto Brass e alcune sequenze di Ostia di Sergio Citti e di Sul mare di Alessandro D'Alatri. Isola e carcere s’identificano da secoli, il contesto culturale temporale e artificiale del carcere è la sostanza dell’identità insulare, non se ne può prescindere per gli umani di oggi e forse del futuro. 

Nei decenni recenti sono stati proposti alcuni progetti di recupero, ivi compresa un'improvvida iniziativa privata che mirava a trasformarlo in struttura alberghiera. Di notevole rilievo è ora il progetto di restauro e riuso del Complesso dell’ex Carcere dell’isola di Santo Stefano-Ventotene, promosso nel 2016 e rilanciato nell’ultimo biennio, fra l’altro con un finanziamento di 70 milioni di euro. Per assicurare il coordinamento tra le almeno otto amministrazioni pubbliche coinvolte e dare un impulso operativo all’attuazione degli interventi previsti, a fine gennaio 2020 è stato affidato a Silvia Costa il ruolo di Commissario straordinario. Dapprima è stato così approvato il piano operativo 2020-2023 e impostato uno Studio di Fattibilità (approvato poi a maggio 2021) in base al quale Santo Stefano dovrebbe diventare una “Scuola di alti pensieri” di respiro europeo su tre assi tematici: Storia/Cultura, Ambiente/ Natura, Europa/Mediterraneo, con la realizzazione di percorsi sia museali che naturalistici. 

Sono stati inoltre eseguiti da novembre 2020 i primi lavori d’urgenza per la messa in sicurezza del nucleo storico; è stato bandito il Concorso Internazionale di Progettazione per l’intero Complesso dell’ex carcere; è stato allestito ad aprile 2021 un Infopoint al porto di Ventotene; tramite procedura aperta è stato affidato l’appalto della “messa in sicurezza degli edifici”, i cui lavori stanno iniziando a fine 2021; è in corso la Valutazione di Impatto Ambientale del progetto di realizzazione per il delicato nuovo approdo. Oggi esiste anche l’area protetta a mare e l’intero comune di Ventotene (compresa Santo Stefano) include una Riserva naturale statale e l’Area marina protetta, con tutti i vincoli di legge. Forse bisognerebbe partire anche da lì per pianificare una forma di esistenza integrata, leggera e sostenibile. 

La vocazione biologica dell’isolotto di Santo Stefano non è residenziale per gli umani, pur avendo la nostra specie reso immigrabile e abitabile ogni ecosistema, ogni lembo di terra e di mare, via via nel corso dei millenni e dei secoli. In linea di massima si potrà anche dover e poter dormire a Santo Stefano, non è un peccato in sé, tuttavia solo funzionalmente ad attività di alta formazione culturale, manutenzione, studio, visite guidate, documentazione, ricerca e osservazione naturalistica (marina e terrestre), non come residenza civile o turismo o spettacolo. Le forme possibili sono tante: esistono foresterie, ostelli per studenti, appartamenti d’appoggio temporaneo o stagionale per lavoratori residenti altrove, comunque sempre riferendosi a poche decine di persone in tutto. Non avrebbe senso lavorarci, spendere e recuperare per poi abbandonare di nuovo l’isolotto con gli edifici ben ristrutturati (con pochi e sostenibili impatti ambientali), destinati proprio a meglio conservare e valorizzare memorie di storia umana e di 170 anni di vita penitenziaria, da fruire con utilità morale e civile pubblica, prima possibile. Il flusso stabile di visite verso Santo Stefano, con imbarcazioni autorizzate provenienti esclusivamente da Ventotene, è previsto per il 2026, massimo 280 persone al giorno per otto mesi l’anno.

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