UNIVERSITÀ E SCUOLA

Insegnare: arte o scienza?

Dal mio punto di vista insegnare è soprattutto una scienza. La ricerca degli ultimi 20 anni ha stabilito molto chiaramente che alcune tecniche, se conosciute e applicate, danno risultati migliori”. A parlare è Carl WiemanNobel per la Fisica nel 2021 assieme a Eric A. Cornell e Wolfgang Ketterle per essere riuscito ad ottenere la condensazione di Bose-Einstein nelle nuvole gassose di atomi alcalini e per i primi studi fondamentali sulle proprietà dei condensati.

Da diversi anni però Wieman si occupa anche di didattica, in particolare nelle discipline STEM: anche per questo è stato invitato a tenere una Nobel Lecture presso l'Università di Padova, nell'Aula Magna di Palazzo del Bo. Qui il fisico ha presentato quelli che reputa i frutti di decine di anni di insegnamento e di ricerca sul tema, “durante i quali mi sono reso conto che anche gli studenti più brillanti impiegavano, una volta terminati i corsi di studi, dai due ai quattro anni per imparare a fare veramente ricerca”.

Un vero e proprio ‘rompicapo’ affrontato da Wieman come un problema scientifico, alla ricerca di metodi di insegnamento più efficaci. Il risultato è il cosiddetto Deliberate practice teaching approach, un metodo di studio e di insegnamento che di fatto si ispira ai gruppi di ricerca internazionali, articolato in 29 passaggi e fondato in sostanza su problem solving, lavoro di gruppo e feedback costanti da parte di docenti e tutor. Una metodologia che, si assicura, è avvalorata da una consistente mole di dati, dai quali emerge che i corsi che seguono questo ‘approccio scientifico all’insegnamento’ darebbero risultati molto migliori nei test.

Intervista di Daniele Mont D'Arpizio, montaggio di Barbara Paknazar

Un dibattito acceso

Da tempo, soprattutto al di là dell’oceano, ci si interroga sul modo più adeguato di trasmettere conoscenze e abilità alle nuove generazioni, in un contesto sociale ed educativo trasformato in pochi anni dalla comparsa delle grandi piattaforme social e ultimamente dall’AI. “In futuro immagino i professori aiutati da agenti provvisti di intelligenza artificiale che svolgono parte del lavoro”, ha spiegato ad esempio su questo giornale Chris Dede, uno dei massimi esperti statunitensi di tecnologie per l’apprendimento, prefigurando corsi impostati sul learning by doing, magari attraverso piattaforme simili a quelle dei videogiochi.

Dal canto suo Krishna Rajagopal, William A. M. Burden Professor of Physics al Massachusetts Institute of Technology e già prorettore alla didattica dell'ateneo statunitense, sempre in un’intervista a Il Bo Live chiosa che “alla base l’insegnamento riguarda sempre due persone che interagiscono e imparano reciprocamente. Da tempo al MIT la politica è mettere i contenuti on line, in modo da riservare le ore insieme al problem solving e agli aha moments. È un sistema che richiede anche un po’ di umiltà da parte di noi professori, chiamati a concentrarsi su quello che gli studenti stanno effettivamente capendo piuttosto che sulla lezione”.

Anche in Italia intanto ci si muove: secondo le nuove linee guida ministeriali delle discipline Stem, chiarisce il consigliere presso il Ministero dell’istruzione e del merito Vincenzo Vespri, “ci si propone di partire dalle applicazioni concrete per arrivare in un secondo momento alla parte teorica”. Allo stesso tempo, per avvicinare i giovani a scienza e ricerca, il matematico fiorentino ha da poco pubblicato un libro divulgativo: Le anime della matematica. Da Pitagora alle intelligenze artificiali (Diarkos 2024). Come a dire che va bene puntare sul metodo scientifico, ma anche lo story telling può aiutare.

La Nobel Lecture di Carl Wieman

Il ruolo della creatività

Un aspetto interessante del metodo proposto da Wieman è il ruolo giocato dalla creatività. All’obiezione che forse l’abitudine a lavorare quasi esclusivamente in gruppo possa stimolare il conformismo il fisico americano risponde convintamente che bisogna prendere atto della realtà della scienza odierna, nella quale ben poco sembra rimanere all’intuizione e all’iniziativa esclusivamente individuale.

Allo stesso tempo ci si interroga sulle possibilità di cogliere e leggere, in un metodo così strutturato, risultati e intuizioni che vadano in direzioni completamente diverse da quelle attese. Da tempo infatti sono gli stessi scienziati e ricercatori a mettere in luce nel progresso della conoscenza il ruolo dello stupore, dell’inatteso e persino dell’errore: si leggano a questo riguardo in Storie di errori memorabili di Piero Martin, (Laterza 2024) e Gli errori fecondi di G.B. Zorzoli (Il Mulino 2024), per citare due tra i titoli più recenti.

È ovvio che in tale prospettiva il pensiero difforme e quello laterale, 'eretico', non giocano un ruolo positivo. Eppure, come scriveva il grande e compianto Pietro Greco citando il lavoro dei sociologi Lingfei Wu, Dashun Wang e James A. Evans, “I lavori che impongono un cambio di occhiali e persino l’abbandono di paradigmi consolidati sono spesso opera di piccoli gruppi. E più sono piccoli i gruppi, più il tasso di innovazione è alto”.

Big Science e Small Science

Quella descritta da Wieman appare insomma la metodologia perfetta per la cosiddetta Big Science, il modo di fare scienza tipico dei grandi progetti, dagli acceleratori di particelle allo spazio passando per le prime ricerche sul genoma umano. Una metodologia sicuramente efficace quando si hanno a disposizione buoni finanziamenti e campi di ricerca già individuati, dai confini abbastanza chiari.

Lavorare in gruppo con una forte metodologia condivisa oppure coltivare la creatività e l’individualità? Chi ha ragione? Ammesso che possano esserci risposte definitive si può intanto auspicare la reciproca ibridazione, presupposto di ogni processo evolutivo. Metodo e creatività possono e devono andare insieme, con juicio.

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