SCIENZA E RICERCA

L’agonia delle foreste di Noril’sk

Le foreste di larici e abeti rossi di Noril’sk, alle porte della Russia siberiana, sono ridotte a un cumulo di stuzzicadenti: gli alberi sono ancora in piedi, ma spogli, senza rami, morti, grigi e cupi. Colpa dell’inquinamento dovuto all’attività industriale che ha lasciato un’impronta indelebile. Qui l’attività decennale di estrazione di nichel e rame ha devastato l’ambiente a tal punto da influenzare il ciclo del carbonio, la salute della taiga e il tasso di crescita degli alberi. Così un team di ricercatori dell’Università di Cambridge, sulle pagine di Ecology Letters, denuncia l’agonia della taiga di Noril’sk, salita alle cronache internazionali a giugno scorso per lo sversamento di gasolio fuoriuscito da una centrale termoelettrica.

Per via dell’estrazione intensiva di nichel, rame e palladio che va avanti dagli anni Trenta senza troppe regolamentazioni in materia ambientale, Noril’sk è diventato uno dei luoghi più inquinati della Terra. Le emissioni atmosferiche del complesso industriale della città che conta più di 100.000 abitanti hanno già distrutto circa 24.000 chilometri quadrati di foresta boreale, ma anche gli alberi sopravvissuti non se la passano bene. L’inquinamento è infatti così elevato che ha ridotto la capacità della foresta boreale di sequestrare carbonio dall’atmosfera, provocando un raro e finora inspiegabile fenomeno dendrocronologico. In pratica dagli anni Settanta in poi è avvenuto un disaccoppiamento tra il tasso di crescita degli alberi e la temperatura: con l’aumento della temperatura gli alberi dovrebbero crescere più velocemente, formando anelli più spessi, a maggior ragione con il surriscaldamento globale. Ma a Noril’sk non è così: gli anelli degli alberi sono più sottili di quanto dovrebbero essere.

Il team guidato da Alexander Kirdyanov e Ulf Büntgen, dell’università di Cambridge e del Sukachev Institute of Forest, ha così cercato di ricostruire la storia recente e capire l’intensità del danno arrecato dall’inquinamento atmosferico alla foresta boreale. Il gruppo ha costituito un enorme dataset, tenendo conto sia degli alberi vivi che di quelli morti, delle misurazioni dendrocronologiche e dell’accumulo di zolfo, rame e nichel nel legno e nel terriccio del sottobosco. «Grazie alle informazioni ricavate» ha spiegato Kirdyanov «siamo riusciti finalmente a comprendere gli effetti del disastro ambientale incontrollato di Noril’sk negli ultimi nove decenni». 

«Sebbene il problema delle emissioni di zolfo e del deperimento forestale sia stato affrontato con successo in gran parte d’Europa» ha aggiunto Büntgen «per la Siberia fino ad oggi non siamo stati in grado di capire quale fosse l’entità dell’impatto, in gran parte per la mancanza di dati di monitoraggio a lungo termine».

Dagli anni Sessanta, quindi, la taiga di Noril’sk ha iniziato a morire e nessuno sapeva fino in fondo perché. Ora, grazie alla lunga e documentata serie di dati che copre gli ultimi novant’anni, i ricercatori sono riusciti a dimostrare che le sostanze inquinanti rilasciate nell’atmosfera da miniere e fonderie sono responsabili di un fenomeno di “oscuramento artico”. 

L’aumento di particolato sospeso nell’atmosfera terrestre, sia che questo provenga dall’inquinamento o che sia frutto di eruzioni vulcaniche, blocca letteralmente la luce solare, rallenta il processo di evaporazione e impedisce alle piante di effettuare un’adeguata fotosintesi, di trasformare cioè la luce solare in energia e zuccheri e di svilupparsi a un ritmo adeguato. In sostanza le soffoca e limita la loro crescita. E quest’effetto è particolarmente evidente dove la crescita degli alberi è limitata a poche settimane tra giugno e agosto, perché la notte polare dura 45 giorni, con temperature medie annuali di circa -10 °C e temperature giornaliere minime che possono arrivare fino a -50 °C in inverno.

Dunque mentre il surriscaldamento globale dovrebbe aiutare gli alberi della taiga a crescere, e a sequestrare più carbonio dall’atmosfera, la mole di inquinamento e di particolato sospeso in atmosfera a Noril’sk annichilisce completamente questa capacità che potrebbe invece rappresentare un unico piccolo vantaggio per tentare di tenere il passo con i cambiamenti climatici.

«Quando i livelli di inquinamento hanno raggiunto il picco, negli anni Sessanta, il tasso di crescita degli alberi nella Siberia settentrionale ha rallentato bruscamente» ha ricordato Büntgen. «Gli alberi della taiga improvvisamente non sono più stati in grado di crescere rapidamente o forti come prima».

Quando ha aperto la fonderia, nel 1938, i larici hanno iniziato a morire a un ritmo del 5% l’anno. Poi negli anni Sessanta ha aperto la miniera Mayak, le emissioni di ossidi di zolfo sono aumentate e così pure la mortalità degli alberi che si è impennata fino al 60%. All’inizio degli anni Ottanta, infine, tutti i larici nel raggio di 69 chilometri a est-sud-est di Noril’sk erano morti. E in altre zone solo il 25% di loro era ancora vivo. Gli abeti rossi hanno seguito lo stesso triste destino con circa un decennio di ritardo, ma da quando ha aperto anche il complesso di Nadejda, nel 1979, la produzione di metalli pesanti di Noril’sk è cresciuta di cinque volte, e nel 1983 si è arrivato a un picco di emissioni di ossidi di zolfo di quasi due milioni e mezzo di tonnellate.

Poiché l’inquinamento atmosferico nell’Artico si accumula seguendo schemi di circolazione atmosferica su larga scala, il team ha ampliato il loro studio ben oltre gli effetti diretti del settore industriale di Noril’sk. E hanno scoperto che a risentire dell’inquinamento e di questo disaccoppiamento tra il tasso di crescita e l’aumento della temperatura dovuto al fenomeno di oscuramento artico sono tutti gli alberi delle latitudini più settentrionali. «Siamo rimasti davvero sorpresi da quanto siano diffusi gli effetti dell’inquinamento industriale» ha concluso Büntgen. «L’entità dei danni mostra quanto sia vulnerabile e sensibile la foresta boreale, che è un bioma di importanza strategica anche nella lotta al cambiamento climatico. Dobbiamo cercare di intervenire perché i livelli di inquinamento alle alte latitudini potrebbero avere un enorme impatto sull’intero ciclo globale del carbonio».

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