Un racconto di due continenti? I recenti dati sull’andamento dell’economia tra le due sponde dell’Atlantico mostrano la riapertura di un gap. Gli Stati Uniti sono in piena ripresa post COVID-19, mentre l’area dell’euro è ancora in recessione. Nel primo trimestre del 2021, il prodotto interno lordo è salito dell’1,6% negli Usa, è diminuito dello 0,6% nell’eurozona. La lettura di questi numeri è particolarmente complicata, dato che alle tradizionali spiegazioni basate su variabili economiche vanno aggiunte variabili sanitarie, come l’andamento dell’epidemia e il progresso delle campagne di vaccinazione. Mentre le spiegazioni “economiche” fanno leva sulla struttura dei mercati e sull’entità dello stimolo fiscale approvato dai governi, quelle sanitarie seguono le chiusure determinate dalle ondate della diffusione del virus e le riaperture consentite dall’immunizzazione. E su entrambe pesa la dimensione della politica, sia per il differente passo del ciclo politico interno alle due aree, che per la definizione di quello che sarà il rapporto tra l’America di Biden e l’Unione europea.
Estremismo americano
Per cominciare, si può partire da uno dei film in programmazione nelle sale appena riaperte, pluripremiato agli Oscar. Il viaggio di Fern, protagonista di Nomadland, parte da Empire, che a dispetto del nome è una landa desolata in Nevada, un paese fantasma costruito per ospitare gli operai di una miniera e chiuso con la Grande recessione, nel 2011. Estrema è non solo la scelta della comunità di nomadi “houseless” raccontata nel film, ma anche una struttura sociale nella quale se chiude una fabbrica direttamente e immediatamente sparisce una città, con le sue case e i suoi abitanti. Processi che abbiamo visto anche in molti posti in Europa, ma che negli Stati Uniti sono più immediati e, appunto, estremi.
La pandemia è arrivata prima in Europa che negli Stati Uniti, ma ha colpito duro entrambi, sia in termini di contagi e morti che per le conseguenze economiche. Il prodotto interno lordo nel 2020, in quella che è stata la più grave contrazione mondiale dell’economia, è sceso del 3,5% negli Stati Uniti, e del 6,6% nell’area dell’euro (in Italia, tra i paesi più colpiti, dell’8,9%). In parallelo, l’occupazione è scesa di 1,3 punti percentuali nell’eurozona (dal 67,1 al 65,8%) e di 4,3 punti negli Usa (dal 71,4 al 67,1%). Dunque, la caduta del Pil è stata più forte da noi, ma i suoi effetti sull’occupazione sono stati frenati dalla rete di protezione esistente in Europa: dalla cassa integrazione in Italia ai vari schemi di “job retention” in altri Paesi, in parte automatici e in parte estesi con programmi straordinari. E’ vero che questi programmi hanno mostrato tutta la loro insufficienza nel coprire autonomi e lavoro precario, ma almeno sul lavoro dipendente hanno funzionato, mantenendo alle persone il posto di lavoro - anche se spesso a salario ridotto.
“ L’economia americana è un saggio sulla diseguaglianza, l'Europa un bastione relativo della socialdemocrazia
La differenza è sottolineata da un articolo del New York Times che riflette sui differenti scenari che si stanno aprendo nelle due economie: “Il passo contrastante della ripresa economica in Europa e negli Stati uniti riflette differenze fondamentali nei valori e nelle strutture sociali. L’economia americana è un saggio sulla diseguaglianza, con rischi e premi che tendono all’estremo, e fallimenti spesso capaci di precipitare nella catastrofe, dato che la mancanza di lavoro spesso comporta la perdita dell’assicurazione sanitaria. L’Europa rimane un bastione relativo della socialdemocrazia, nel quale più alti livelli di tassazione finanziano il sistema sanitario pubblico e programmi che automaticamente aiutano chi perde il lavoro”. Negli Stati Uniti il lockdown ha causato immediate perdite di lavoro, con persone che sono entrate nelle statistiche della disoccupazione - magari ricevendo sussidi straordinari con programmi di assistenza, ma senza avere più il loro posto di lavoro. Poi, con il passare dell’onda nera, sono tornati o hanno cercato altri lavori.
E’ possibile che questa estrema flessibilità abbia spinto, ancora una volta, un modello nel quale si cade più rapidamente e si risale altrettanto rapidamente? Possibile, ma è solo una parte della storia.
Lo stimolo fiscale
L’altra parte della storia è nelle politiche di spesa introdotte in emergenza, prima per tamponare gli effetti del lockdown e poi per stimolare la ripresa. Nell’ondata keynesiana che ha seppellito in pochi mesi i trent’anni vincenti dello Stato minimo nel mondo e il ventennio dell’austerità europea, gli Stati Uniti hanno guidato la corsa.
L’eurozona ha subito “liberato” gli Stati membri dal Patto di stabilità e crescita - ossia dai vincoli alla spesa pubblica in debito - e varato programmi specifici sovranazionali, come il Sure. Poi ha approvato il Next Generation EU, con un extra-stimolo fiscale per 800 miliardi deciso nel lunghissimo vertice del luglio scorso. Gli Stati Uniti di Biden hanno fatto di più, con un piano di spesa per 1.900 miliardi di dollari.
C’è una differenza nell’entità, ma soprattutto nella rapidità. Fermiamoci per un attimo al già fatto, ossia alla chiusura dei conti del 2020: i bilanci pubblici sono andati in rosso un po’ ovunque nel mondo, ma il rapporto tra il deficit totale e il Pil è stato del 15,8% negli Usa, del 7,6% nell’eurozona (i dati sono riepilogati nel Fiscal Monitor del Fondo monetario internazionale). Dunque l’area dell’euro, con i suoi “stabilizzatori automatici” (come la cassa integrazione) e la sospensione dei vincoli di bilancio si è fermata a meno della metà della potenza di fuoco messa in campo dagli Usa. Il rapporto tra spesa pubblica e Pil è salito nell’eurozona dal 47 al 54,1%, negli Usa dal 35,7 al 46,2%: come si vede, la spesa pubblica rimane comunque più alta nell’eurozona, ma l’incremento è stato maggiore negli Usa. E per il futuro, il piano di Biden è più consistente di quello europeo, anche in rapporto alla diversa dimensione economica delle due aree: e potrebbe anche crescere, dopo che gli ultimi dati sull’occupazione, quelli di aprile, hanno mostrato un incremento di sole 226mila assunzioni, contro le oltre 770mila di marzo.
In questo confronto, pare che a premiare gli Usa - ammesso che la tendenza prosegua, e i dati di aprile non indichino invece che la ripresa è meno forte di quanto sembrasse - sia il pragmatismo della politica, più che l’estremismo della struttura economica e sociale notato prima. E un aiuto decisivo è arrivato dal successo della campagna di vaccinazione. Su tutti questi fattori ovviamente incide il peso geopolitico, e la potenza della ricerca e dell’industria nazionale - quella farmaceutica in questo caso.
Aspettando Hamilton
Il vertice del Consiglio europeo del luglio scorso è stato storico e straordinario, anche per durata (dal 17 al 21 luglio). Le maggiori potenze europee hanno impiegato giorni per convincere piccoli e riluttanti Paesi ad accettare che l’Unione potesse garantire per i debiti di tutti, e così finanziare il Next Generation EU del quale stiamo vedendo in questi giorni le attuazioni nazionali. Ma attenzione: si tratta ancora di piani scritti sulla carta.
Per ora, il grosso delle spese pubbliche straordinarie per COVID-19 è arrivato ancora dai governi nazionali, favoriti dalla bonaccia dei mercati e dalla rete di protezione della Bce. Il vertice di luglio è stato presentato come un “momento Hamilton” per l’Unione europea - dal nome del fondatore del federalismo fiscale statunitense. Ma Hamilton non abita ancora qui. Anche se indubbiamente un gigantesco passo in avanti è stato fatto, la struttura istituzionale europea è quella di prima, le decisioni sono lente e prigioniere delle procedure necessarie per far passare la stessa linea in ventisette diversi Paesi, qualsiasi premier locale, magari condizionato dal ciclo politico interno può rallentare decisioni vitali. Questo limite è apparso drammaticamente evidente nella gestione dell’acquisto e della distribuzione dei vaccini.
Non solo: i problemi economici che ogni “piano di ripresa e resilienza” dovrà affrontare sono diversissimi, ma tutte le misure devono essere inquadrate e incanalate nelle stesse formule, quelle che l’Unione ha per controllare e condizionare le spese. Tenuta insieme per anni da un ricetta unica, che di fatto era un divieto per i governi di indebitarsi per finanziare le loro spese, adesso l’Europa fatica a trasformare il “vincolo esterno” in “stimolo esterno”. Anche per la mancanza di classi politiche nazionali (abituate in passato ad amministrare pigramente il vincolo esterno, o a lucrare consensi protestando contro di esso) capaci di dare rapidamente sostanza al grande piano, e spesso tentate di tornare al “business as usual”, con i nordici che protestano contro il lassismo del sud e i “meridionali” tentati da spese facili e clientelari. Deciso in stato di necessità, il nuovo corso solidale deve trasformarsi in normalità; e farlo rapidamente.