SOCIETÀ

La rincorsa a innovazione e crescita rischia di strozzare la ricerca

La ricerca europea sta vivendo un momento molto importante. Saranno le negoziazioni tra istituzioni a stabilire quanto sarà il budget del prossimo programma Horizon Europe per finanziare ricerca e innovazione (R&I), per il periodo che va dal 2028 al 2034, ma la Commissione Europea ha proposto di portarlo a 175 miliardi di euro, dai 95 attuali. Non sono ancora i 200 miliardi che erano stati caldeggiati dal rapporto sul futuro della competitività europea di Mario Draghi, ma si tratterebbe comunque di un aumento molto significativo: quasi il doppio.

Il Nobel per l’economia di quest’anno, assegnato a Joel Mokyr, Philippe Aghion e Peter Howitt, ha premiato gli studi che hanno messo in evidenza il nesso tra crescita e innovazione. Proprio su questo fronte, l’Europa è intenzionata a colmare proprio il divario che sconta da Stati Uniti e Cina, e vorrebbe farlo anche chiedendo alla ricerca di mettersi il più possibile al servizio della competitività economica. Se sia una ricetta vincente però è tutto da dimostrare.

Per produrre più innovazione servono innanzitutto più menti, o capitale umano come si usa dire. Negli ultimi mesi sono stati lanciati una serie di programmi, sia a livello nazionale sia comunitario, per attrarre ricercatori, anche fuori dell’Europa. Choose Europe for Science, con 500 milioni di euro, ad esempio era finalizzato ad attirare soprattutto quelli in fuga dagli Stati Uniti.

Questa e altre iniziative sembrano aver avuto successo, stando ai dati anticipati dalla Commissione e analizzati da Nature: i principali programmi di finanziamento europei per la ricerca di base sono stati inondati di domande, raggiungendo i numeri di richieste più alti degli ultimi 40 anni.

I bandi europei

Nel 2025 le domande di finanziamento per i progetti di post dottorato Marie Skłodowska-Curie Actions (MSCA) sono arrivate a oltre 17.000, una crescita del 65% rispetto all’anno precedente. Con un budget di poco più di 400 milioni di euro però, i progetti vincitori potranno essere circa 1.650, portando il success rate al di sotto del 10%, quando un anno fa era al 17%.

Una situazione analoga si registra per i progetti dello European Research Council (ERC), che finanzia la ricerca di base. Quest’anno lo Starting Grant, il bando dedicato a giovani ricercatori che hanno ricevuto il dottorato da sette anni o meno, riuscirà a finanziare solo il 12% delle quasi 4.000 domande che a ricevuto (l’anno scorso il 14%).

L’Advanced Grant, il bando per ricercatori e professori che hanno ricevuto il dottorato da più di 12 anni, ha visto crescere le domande di finanziamento di oltre l’80% negli ultimi due anni (arrivando a circa 3.300) e ora riuscirà a soddisfarne solo l’8%.

Soprattutto nel caso di ricercatori e ricercatrici a inizio carriera, ottenere uno di questi finanziamenti fa spesso la differenza tra la possibilità di ottenere una posizione accademica permanente e ripiombare tra le grinfie di un precariato che può protrarsi oltre la metà del cammin di nostra vita. Il calo delle percentuali di progetti che vengono finanziati è fonte di preoccupazione.

“Puoi lavorare duramente quanto vuoi, ma alla fine è una questione di numeri. È una questione di fortuna” ha detto a Nature Christina Carlisi, neuroscienziata cognitiva dello University College di Londra, interpretando il pensiero di molti giovani che si trovano nella stessa condizione. “Per lo più è qualcosa che non puoi controllare. E a volte penso sia difficile mantenere alta la motivazione”.

Crescita, IA e difesa

Se dunque l’Europa ha motivo di compiacersi per il fatto che un numero maggiore di ricercatori chiede di lavorare nel Vecchio Continente, dall’altro deve rendersi conto che continuare a fare ricerca sta diventando sempre più difficile.

Una sana competizione dovrebbe elevare la qualità dei progetti, mentre una competizione troppo feroce diventa controproducente: molte idee che meriterebbero sostegno non trovano fondi a sufficienza per venire finanziate. “Assicurarsi uno di questi bandi sta diventando sempre meno una questione di avanzamento della scienza, e sempre di più una questione di restare a fare scienza” scrive Nature.

La proposta di raddoppiare i fondi del prossimo programma Horizon Europe sulla carta potrebbe alzare la percentuale di progetti che vedono la luce, sempre che le nuove risorse non vengano distratte, per così dire, da altri obiettivi.


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Una buona parte del nuovo budget infatti, 68 miliardi, sarà gestita dallo European Competitiveness Fund, che privilegia alcuni settori strategici. Tra questi c’è anche la difesa, che secondo Ursula von der Leyen oltre a garantire la sicurezza europea dovrà al contempo fungere da volano per la crescita economica.

A rafforzare questa visione d’indirizzo c’è anche la proposta della Commissione di togliere il vincolo che impone di usare i fondi europei per finanziare solo ricerche a scopi civili. Horizon Europe vorrebbe aprirsi anche alla ricerche dual-use, quelle con possibili applicazioni militari. A tutto questo poi vanno aggiunte le promesse di profitto dell’Intelligenza Artificiale: ai fondi Horizon accederanno anche le aziende e le start-up che mirano a integrarla nei propri modelli di business.

Sommando la rincorsa alla competitività economica, l’esigenza di una difesa europea e il clamore intorno all’IA, si chiede ai laboratori pubblici e privati di indirizzare il proprio lavoro verso questi scopi. L’esigenza di dare maggiore respiro ai progetti di ricercatori e ricercatrici invece cade inesorabilmente in fondo alla lista delle priorità.

Ricerca, creatività e innovazione

In un editoriale su Science, Lidia Borrell-Damian, segretaria generale di Science Europe (un’associazione che rappresenta istituzioni di ricerca in Europa), riferendosi in particolare ai programmi MSCA e ERC, scrive che “salvaguardare la loro governance e la loro indipendenza da obiettivi guidati dalla politica è essenziale per mantenere l’Europa come leader nella creazione di nuove idee e soluzioni innovative”.

Il rischio infatti è che la scelta di piegare la ricerca alle emergenze del momento storico sia viziata da un equivoco di fondo. “Un eccessivo focus su obiettivi politici di breve termine, come la rapida crescita economica, rischia di ridurre l’ampiezza degli approcci dal basso della ricerca”.

Solitamente infatti, i ritorni economici dell’investimento in ricerca si vedono sul lungo termine, anche dopo decenni. Soprattutto, non è prevedibile a priori quale ricerca di base (quella che scopre meccanismi e processi fondamentali del funzionamento della natura) si tradurrà nel tempo in applicazioni utili o redditizie. Si sa solo che supportandone un’ampia gamma, qualcuna nel tempo pagherà, e lo farà molto bene. Ma è difficile prevedere quale.

Per fare qualche esempio, nessuno immaginava che la scoperta del fenomeno della risonanza, premiata con il Nobel per la fisica a Isidor Rabi nel 1944, avrebbe consentito 40 anni più tardi di rivoluzionare le nostre capacità di diagnosi con la risonanza magnetica. Né si pensava che studiando i meccanismi di difesa di alcuni batteri, Emmanuelle Charpentier e Jennifer Doudna (premiate col Nobel per la chimica nel 2020) avrebbero ricavato una forbice molecolare, Cispr-Cas-9, in grado di stravolgere l’impatto delle biotecnologie, con applicazioni rivoluzionarie che vanno dalla medicina all’agricoltura. Di certo i matematici del 1600 non avevano idea che i loro i teoremi sui numeri primi sarebbero un giorno stati usati per implementare i protocolli di sicurezza di internet e della trasmissione dei dati.

Non è chiedendo alla ricerca di contribuire a prestazioni economiche più performanti che si ottiene immediatamente l’effetto desiderato. Al contrario, si rischia di strozzarne la creatività, che è la scintilla che consente di tenere alto il tasso di innovazione.

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