SOCIETÀ

L’Italia di Masaniello

Umiliato e poi idolatrato in vita, infine ammazzato dopo pochi giorni di potere quasi assoluto; simbolo di libertà e di voglia di riscatto da parte degli oppressi, ma anche di un modo di gestire il potere incompetente e inconcludente, effimero e comunque destinato al fallimento.  A 400 anni dalla nascita la figura di Tommaso Aniello D'Amalfi, universalmente noto come Masaniello (Napoli, 1620 – 1647), è tutto questo e altro ancora: un enigma per molti versi ancora irrisolto.

Un mito che nasce e si sviluppa nell’arco di 10 giorni, dal 7 al 16 luglio 1647. Sono gli anni in cui il dominio spagnolo sull’Europa e il mondo si sta disfacendo, con il ramo iberico degli Asburgo che si trova costretto ad inasprire la pressione fiscale nei possedimenti, nel tentativo di tamponare il dissanguamento provocato dalle continue rivolte nei Paesi Bassi, in Portogallo e in Catalogna. In quel momento il Regno di Napoli è ancora un possedimento spagnolo, e la sua capitale tra le città più popolose e importanti d’Europa.

La miccia appunto sono le tasse, in particolare quelle su generi come il pane e la frutta, consumati soprattutto dai più poveri. Sulla piazza del mercato viene incendiato un gabbiotto dei gabellieri, il popolo si agita e presto tra i tanti avventurieri e sediziosi emerge proprio Masaniello. Pescatore e pescivendolo, contrabbandiere e protettore del meretricio (esercitato pubblicamente dalla moglie, dalla madre e da una sorella), l’uomo in poche ore trova Napoli ai suoi piedi. E il suo potere è praticamente illimitato: tratta alla pari con nobili e rappresentanti della corona, sprona ma allo stesso tempo cerca di controllare la rabbia del popolo.

Da subito Masaniello dimostra una capacità davvero sorprendente di raccogliere e convogliare il consenso nei vari strati della società napoletana, dal popolo grasso a quello minuto. È però un figlio del suo tempo, né rivoluzionario né indipendentista: la rivolta si sviluppa al grido ‘viva il re, abbasso il malgoverno’”. A parlare è Aurelio Musi, docente di storia moderna presso l’università di Salerno che alla figura di Masaniello ha dedicato oltre trent’anni di studi, tra cui l’ultimo libro Masaniello. Il masaniellismo e la degrazione di un mito, pubblicato lo scorso anno da Rubbettino.

Le città italiane non erano nuove a sommosse contro le influenze straniere: anche i liberi comuni si erano dati delle istituzioni autonome, che però rimanevano fortemente ancorate a una concezione della società fondata sul censo, in cui il potere era detenuto dai ricchi o da chi aveva una professione o un mestiere. I Ciompi a Firenze avevano ad esempio provato a cambiare le cose nel 1378, ma per loro non era finita affatto bene. Con Masaniello un popolano, ignorante e analfabeta, emerge come soggetto politico che fonda il potere sulle sue capacità e relazioni (sfruttando anche le non proprio onorevoli attività familiari), riuscendo a dare espressione ad esigenze ed urgenze trasversali: a mettere insomma l’orecchio sul ‘ventre di Napoli’. “Questa caratteristica, generalmente misconosciuta, è invece estremamente importante – continua Musi – e fa di Masaniello, come aveva già notato Benedetto Croce, una figura di assoluto primo piano nella storia europea, all’epoca studiata e ammirata persino da personaggi come Baruch Spinoza”. Tanto che subito in diverse parti del continente il nome del capopopolo raduna folle inneggianti e provoca rivolte, e nel 1830 è proprio la rappresentazione di un melodramma che lo ha come protagonista (composto da Daniel Auber) a dare l’avvio alla rivoluzione nazionale in Belgio.

Masaniello non mira solo alla riduzione delle tasse: vuole soprattutto a un riequilibrio dei poteri tra popolo e nobiltà

Anche da un punto di vista che potremmo dire programmatico il D’Amalfi (che è un cognome e non indica la provenienza) non è completamente sprovveduto: assieme all’intellettuale e avvocato Giulio Genoino, da molti considerato la mente della rivolta, non mira semplicemente alla riduzione delle tasse ma soprattutto a un riequilibrio dei poteri tra popolo e nobiltà, la quale deteneva allora cinque dei sei ‘seggi’ che formavano il governo della città. E in un primo momento la sua azione sembra avere successo, costringendo il vicerè, duca d’Arcos, a sottoscrivere un accordo. Tre giorni dopo però, il 16 luglio1647, saranno proprio i sicari dell’alto funzionario spagnolo a massacrare a colpi di archibugiate il capo della rivolta, nella sacrestia di quella chiesa del Carmine che era divenuta il suo quartier generale e in cui sarà sepolto.

Dopo l’assassinio la ribellione si trasferisce nelle campagne, ma il suo destino però appare segnato. Nell’ottobre 1647 sotto la protezione di Luigi XIV di Francia viene anche proclamata una “Real Repubblica Napoletana”, che però l’anno successivo sarà definitivamente schiacciata dalla reazione spagnola e nobiliare.

Oggi non sappiamo come sarebbe andata se D’Amalfi fosse sopravvissuto, quello che è certo è che quasi subito la sua vicenda diventa un mito in tutta Europa: “In essa l’aspetto simbolico è ancora più importante di quello storico – riprende Musi –. La fortuna di Masaniello è legatissima alla sua sfortuna: fin dall’inizio rappresenta tutto e il suo contrario. Dopo la morte viene presentato come un diavolo, sodomita e anticristo: la tremenda peste del 1656 viene addirittura considerata una punizione divina per le sue malefatte. Con la Repubblica napoletana del 1799 invece diventa un eroe, colui che ha liberato dallo straniero la nazione napoletana, e la sua mitizzazione continua durante il periodo romantico e il Risorgimento”.

Un altro elemento che contribuisce a fondare il mito di questa figura è la pazzia, che ne fa una delle maschere più conosciute della napoletanità, a cui dedicano le loro opere il grande Eduardo De Filippo e Pino Daniele, che in una delle sue canzoni più famose canta “Masaniello è crisciuto / Masaniello è turnato /Je so' pazzo, je so' pazzo”. Anche in questo Tommaso Aniello D’Amalfi unisce antico e moderno: l’ascesa al potere è anche discesa verso lo squilibrio, castigo per aver sovvertito l’ordine e vertigine del potere per semplice uomo della strada che all’improvviso si trova investito di onori e responsabilità.

Così ancora oggi, a quattro secoli di distanza, la figura di Masaniello non smette di interrogarci: “Lo vediamo nei cosiddetti movimenti populisti – conclude Musi –, che intercettano alcuni bisogni reali senza però riuscire a dare una risposta adeguata, e che tuttavia continuano ad avere un loro seguito di fedeli”. l’Italia di oggi, alla continua ricerca di homines novi, parvenu da mettere sul trono e in seguito da divorare, è anche l’Italia di Masaniello, in cui pancia e testa raramente riescono a comunicare.

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