CULTURA

Lontano dagli occhi, intervista a Paolo di Paolo

“Un uomo che sta per diventare padre non lo riconosci da niente. […] Può lui stesso, per qualche ora, dimenticare, e non sarà certo il corpo a ricordarglielo. Affamato, eccitato, stanco, però come sempre. […] Non resteranno segni addosso. Dovrà, per qualche via, essere raggiunto dalla notizia […]. E comunque, è nato, è nata, non sarà come dire sei padre”.

Inizia così l’ultima fatica dello scrittore romano Paolo Di Paolo, classe 1983, che ha al suo attivo parecchi titoli (anche di saggistica e per ragazzi) tra cui cinque romanzi, tutti editi per Feltrinelli.

Lontano dagli occhi, in libreria da qualche mese, è ambizioso ma l’ambizione non emerge: è piacevolmente fruibile, uno di quei romanzi di cui si potrebbe trascrivere le frasi per il gusto di leggerle e rileggerle e lasciare che il loro potere evocativo irrori la fantasia. Eppure gira attorno a qualcosa di intrinsecamente indefinibile e perciò difficile da raccontare: il passaggio binario da zero a uno, dal non essere all’essere, dall’essere responsabili di sé solamente a dovere (o forse no) farsi carico di un altro. Questo passaggio, nei tempi andati, nella vita di un uomo o di una donna avveniva di solito abbastanza presto, al limitare di quella che era l’età adulta. Oggi in molti casi, e per moltissime ragioni, non è più così. I “giovani” si approcciano alla generazione di nuova vita tardi, con un grado di consapevolezza financo eccessivo. Avere figli, alle volte, può sembrare una di quelle cose che se la mediti troppo finisci per non farla mai.

Ma non così accade a questi nuovi protagonisti di Paolo Di Paolo, che nell’avventura della vita che s’accresce ci si trovano per accidente, per sbaglio, per mancato tempismo. E quindi dalla gravidanza, sia maschi che femmine, sono colti alla sprovvista, e questo è narrativamente potente. Cosa succede, dentro, quando l’amore adolescenziale, o giovanile, deraglia in un fatto incontrovertibile? In una vita?

Ce lo chiediamo poco. Lo diamo per scontato, al limite, se serve, deleghiamo il compito alle romanziere, come se, ancora, fare figli, anzi avere figli, fosse cosa “di donne”. E invece no. I figli sono cosa di tutti, e il pensiero che circonda l’azione basilare di perpetuarci non può ridursi a scegliere la marca della carrozzina, l’ostetrica per il corso preparto, e poi – dopo – a quale corso di judo o di balletto mandare il pupillo, come organizzare la festa di Halloween, che università fargli frequentare.

“Un albero genealogico vive di innesti” scrive “per approssimazione, come dicono i botanici, oppure a gemma, a pezza, a tassello. Così funzionano le storie umane: una sola linfa, il sangue, è troppo poco”. E anche se, si capisce, lo scrittore fa quest’affermazione nel tentativo di valutare quanto nella definizione di un individuo conti la biologia piuttosto della cultura o viceversa, questa frase suggerisce, indirettamente, che fermarsi al fatto in sé,   – la procreazione  – o ai suoi orpelli, sia troppo poco.

C’è qualcosa di terribilmente umano, e dimenticato, nel mettere al mondo, e il fatto che un “giovane” romanziere – maschio – abbia deciso di dedicarcisi è una fortuna. Anche perché Paolo Di Paolo è un narratore dell’amore e lo conferma qui, nel dar vita ai suoi, giovani, inesperti, futuri genitori, che dell’amore hanno esperito solo l'inizio di un cammino ma, con quella stessa forza con cui si avvicinano al sentimento massimo e con la stessa vitale inesperienza, fanno venire i brividi a chi legge.

Un albero genealogico vive di innesti per approssimazione, come dicono i botanici, oppure a gemma, a pezza, a tassello. Così funzionano le storie umane: una sola linfa, il sangue, è troppo poco Paolo Di Paolo

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