CULTURA

Luis Sepulveda, un ritratto dell’amico scrittore Bruno Arpaia

Luis Sepulveda muore a settant’anni di coronavirus, lasciando attoniti i suoi moltissimi lettori. Ne abbiamo chiesto, in un'intervista, un ritratto allo scrittore e traduttore italiano Bruno Arpaia, che del romanziere era molto amico.

Bruno, a cosa è principalmente dovuta la fortuna di Sepulveda, autore molto amato dal grande pubblico?

A una serie di fattori. Al fatto che ha una scrittura molto secca e asciutta, molto visiva: quindi apparentemente una scrittura facile. Come ripeto spesso, è una scrittura che ha la leggerezza calviniana, perché le sue sono pagine che scorrono via veloci nella lettura ma rimangono appiccicate addosso. La seconda ragione è sicuramente legata ai temi che affronta: l’ambiente, i viaggi, l’etica… E poi c’è anche l’influsso della sua persona, cioè i lettori sapevano che ciò scriveva nasceva dalle esperienze dirette della sua vita, che è stata sempre coerente di per sé e con il suo lavoro di scrittore.

In che modo la sua produzione è legata alla sua vita?

Come per tutti noi scrittori: in definitiva scriviamo di quello che abbiamo vissuto, di ciò che abbiamo sentito, della musica che abbiamo ascoltato e delle azioni che abbiamo compiuto; per poi però poi mascherarlo sempre. Può trattarsi anche semplicemente della vita interiore: Kafka scriveva grandi capolavori e di lavoro faceva l’impiegato. Nel caso di Sepulveda è stata una vita vissuta con grande intensità e con grande dolore. Aveva partecipato con tutto il cuore all’esperienza cilena negli anni sessanta e settanta, era stato in carcere, torturato, aveva viaggiato in Europa, lavorato con Greenpeace, era stato in Nicaragua a combattere, incarcerato dai sandinisti e liberato... Lucio (così lo chiamavano gli amici, la moglie, i figli) ha avuto una vita densa caratterizzata da una grande coerenza etica che si riflette nei suoi libri: la gente ha sempre saputo che parlava di realtà ed esperienze che aveva vissuto sulla sua propria pelle. Lui stesso non faceva grandi distinzione tra vita e letteratura. C’era una frase di Julio Cortázar che ripeteva spesso: “Bisogna dare alla letteratura lo stesso rigore etico con il quale affrontiamo la vita e dare alla vita la ricchezza di possibilità estetiche con la quale affrontiamo la letteratura”. Etica ed estetica, morale e bellezza messe insieme, insomma.

Bisogna dare alla letteratura lo stesso rigore etico con il quale affrontiamo la vita e dare alla vita la ricchezza di possibilità estetiche con la quale affrontiamo la letteratura Julio Cortázar

Di Luis Sepulveda hai mai tradotto niente?

No, la sua traduttrice (e amica) è sempre stata in Ilide Carmignani. Però c'è una raccolta di conversazioni fatte insieme che si intitola Raccontare, resistere, uscito per Guanda in due edizioni: nel 2002 e poi più di recente, aggiornata. Lì si parlava di natura, di ambiente, di politica, della globalizzazione. Lui si sentiva cittadino del mondo e odiava la parola “scrittore impegnato”: si sentiva coinvolto nel mondo che lo circondava come cittadino e questo evidentemente si travasava nel Sepulveda scrittore.

Come siete diventati amici e che amico era?

L'ho conosciuto una trentina di anni fa alla “Semana negra” di Gijon nelle Asturie dove lui poi avrebbe vissuto (ma all’epoca abitava ancora in Germania), che era (ed è) un festival letterario fondato dallo scrittore e attivista Paco Ignacio Taibo II, altro caro amico. Quell’ambiente fu per me una specie di rivelazione: ero uno scrittore giovane e sconosciuto e lì mi immersi in un’atmosfera totalmente diversa da quella che c'era allora in Italia, dove il mondo della letteratura sembrava fatto quasi solo di individualismo, risentimenti, ripicche. Alla "Semana negra" si radunavano scrittori provenienti da tutto il mondo – da Cuba, dall’Argentina, dal Cile, dalla Russia, dalla Germania, dalla Francia e poi anche dall’Italia – e si respirava tutta un’altra aria: di amicizia, di stima reciproca, di grande condivisione del lavoro, di generosità. Gli scrittori si aiutavano tra loro, in particolare quelli del blocco dell’est (la questione non era ancora risolta) o gli scrittori cubani che difficilmente potevano uscire dall'isola: per esempio li si ospitava a casa a mangiare, visto che non avevano mai un dollaro in tasca! Questo “giro” di amicizie tra scrittori mi meravigliava e piaceva moltissimo e pian piano divenni amico anche di Sepulveda, che era, già all'epoca, il bestsellerista del gruppo. C’erano grandi scrittori, intendiamoci, – per dire c’era anche Vázquez Montalbán – , ma nessuno vendeva quanto lui.

Che lingua parlavate?

In spagnolo. Era però portatissimo per le lingue: viveva in Germania e parlava tedesco, andava in Parigi e parlava francese, in Italia teneva le presentazioni in italiano...

E poi?

Poi la nostra amicizia è cresciuta: veniva in Italia e ci vedevamo, ci incontravamo ai festival letterari in giro per il mondo, e ci siamo, da un certo momento in poi, sempre frequentati, facendo (insieme anche agli altri amici scrittori) grandi chiacchierate e – perché no? – grandi mangiate. Nel mio caso non certo grandi bevute, perché sono astemio, come anche Paco Taibo, ma gli altri amavano anche accompagnare la riflessione al buon vino. Discutevamo fino alle due di notte, con anche tanta ironia e autoironia, che sono qualità che a Lucio non mancavano e infatti il il gusto per la battuta fulminante si coglie bene nei suoi libri. La nostra era un'amicizia piena, non soltanto un rapporto mediato dalla letteratura.

I suoi libri sono trasversali, li leggono anche i bambini: Sepulveda scriveva così con intento programmatico?

Era convinto, come molti di noi, che i generi letterari siano un'invenzione dei critici. Il romanzo nasce con Cervantes, che nel Don Chisciotte attraversa e mescola insieme tutte le tipologie letterarie dell’epoca, e procede nei secoli inglobando i vari generi letterari. Sepulveda non aveva frontiere: non si poneva il problema di scrivere un giallo, o una favola, o un racconto. Proprio in questo attraversare i confini era molto bravo. Ha infatti scritto romanzi di tutti i tipi: noir, storie con una tocco di fantastico, favole per bambini, e anche molti racconti – in cui era maestro – e persino poesie

Ma è raro che uno stesso testo sia amato sia dai bambini che dagli adulti…

Questo deriva dalla sua grande capacità di sintesi. I suoi dattiloscritti originali erano di anche 500 pagine e lui poi, con un grande lavoro di sottrazione, li riduceva a 150. Inoltre aveva il dono di individuare delle immagini visivamente molto forti: gli bastava un accenno e il lettore capiva tutta la psicologia di un personaggio. Quest’immediatezza faceva sì che i suoi libri riuscissero (e riusciranno) ad arrivare, come diceva lui, “ai ragazzi dai 5 anni ai 90”.


Da Raccontare, resistere, Guanda

Bruno Arpaia: Il tuo successo arrivò con Il vecchio che leggeva romanzi d’amore…

Luis Sepulveda: Lo pubblicai nel 1989, in Spagna, con la casa editrice Júcar, ma la tiratura restò quasi interamente in magazzino. Poi, quando dopo sedici anni di esilio tornai per la prima volta in Cile, gli amici mi fecero una sorpresa: mi accolsero con in mano un’edizione cilena del libro, quasi amatoriale, tutta scalcagnata, che si squadernava appena la aprivi. Ma una copia di quell’edizione arrivò chissà come in Francia, nelle mani di Anne-Marie Metailié, e il libro si trasformò in un successo enorme. In seguito, fu pubblicato in Italia, in Spagna, dove fu riscoperto da Tusquets, e in Germania, scalando rapidamente le classifiche di vendita. Era il mio primo romanzo e l’avevo avuto a lungo in testa. Per anni avevo pensato a come raccontare quella storia di cui avevo solo il titolo, ispiratomi proprio da un vecchio che avevo conosciuto nella giungla e che davvero passava il tempo leggendo romanzi d’amore. Volevo imbarcarmi in un’impresa contrassegnata dal rispetto per gli Shuar e per la selva, vale a dire che non volevo a nessun costo scrivere un libro esotico. Allo stesso tempo, mi era anche chiara la necessità di fare i conti con l’esilio. In fondo, Il vecchio è un libro sull’esilio, non esiste nessuno più esiliato del mio protagonista. Ed è anche un libro molto hemingwayano, in cui tutto, fin dal titolo, conduce a lui. La cosa più difficile, comunque, fu evitare che un’esperienza forte come quella che avevo vissuto nella selva strangolasse la storia del vecchio. Puoi immaginare quanti aneddoti e quante storie sono stato tentato di inserire nel libro, ma si trattava di storie e aneddoti che non avevano nulla a che vedere con la trama. Ho dovuto lottare per dare ai personaggi la giusta importanza relativa e non far prendere loro il sopravvento su quelli che io avevo deciso dovessero svolgere i ruoli principali. Tagliai e limai fino allo sfinimento. Con l’ultima revisione, mi sembrò di avere potato abbastanza. Mentre lo stavo facendo, scoprii uno dei modi migliori di fare la correzione finale dei testi. Fu la prima volta che lessi un intero mio libro al registratore. Quando lo riascoltai, mi resi conto che l’ultima delle correzioni deve essere orale.

Bruno Arpaia: Aspetta, aspetta… Vuoi dire che registri tutti i tuoi testi e poi li riascolti?

Luis Sepulveda: Certo. Li leggo per intero davanti al microfono e poi li riascolto: lì sì che ti rendi conto del vero valore delle parole… È come realizzare il vecchio desiderio di ogni scrittore, quello di avvicinarsi a una persona che non si conosce e raccontarle una storia, anche molto lunga. Il sogno di ogni narratore che si rispetti è quello di essere capace di mantenere viva l’attenzione dell’ascoltatore per tutto il tempo della storia. Se, quando registri e riascolti, senti che l’attenzione cade, vuol dire che nel libro la tensione cade dieci volte di più, perché la parola scritta non ha la vitalità del racconto orale. Quella è la correzione definitiva, quella che non mente. Se correggi sul testo scritto, tu stesso finisci per lasciarti incantare dalle parole che hai usato o dallo sviluppo che ha preso un’idea, ma il momento della verità, l’ora fatidica, las cinco de la tarde, viene quando ascolti. L’ho scoperto con Il vecchio e da allora non ho più abbandonato questo metodo di correzione. Tagliare, potare, è la parte più difficile della scrittura. Il dattiloscritto del Vecchio aveva quasi seicento pagine, ma piene di intromissioni indebite dell’autore, di tutto ciò che io sapevo sulla selva, sugli Shuar, sull’esilio, di tutto ciò che sapevo o intuivo sulla vecchiaia. Un romanzo, però, non è un trattato in cui devi dimostrare la tua erudizione, è semplicemente il racconto di una storia. Bisogna essere capaci di raccontare solo il necessario, solo ciò che il romanzo esige. Per me è fondamentale non partecipare al racconto, fare in modo che lo facciano solo i personaggi. È chiaro che ho sempre la tentazione di trasferire nel libro le mie esperienze personali, ma mi rendo conto che sarebbe un vizio, una specie di agiografia occulta, anche se ritengo legittimo fornire alcune mie esperienze a qualche personaggio, a patto che siano funzionali alla storia. Non amo i romanzi che, a un certo punto, fanno un salto e si trasformano in un saggio dell’autore su un qualsiasi tema, facendo passare in secondo piano i personaggi. In questo senso trovo detestabili molti autori nordamericani d’oggi. Invece ammiro molto i grandi giallisti statunitensi, che sanno tagliare, implacabilmente, dal racconto tutto ciò che non gli è strettamente necessario. Tagliare, scarnificare: è questo l’imperativo. Certo, il romanzo, rispetto al racconto, permette maggiore libertà perché consente di rimontare i capitoli come in un caleidoscopio, ti permette una scrittura più meditata e razionale, più di lunga distanza, ma in compenso esige quel terribile rito del taglio finale, della potatura. Anche Patagonia Express era in origine molto più lungo, ma poi molte pagine sono finite nel cestino per lasciare spazio a quelle, e solo a quelle, che la storia pretendeva. Anche in Un nome da torero ho dovuto tagliare fino all’inverosimile per evitare quello che, come ho già detto, a me dà più fastidio, vale a dire l’intromissione dell’autore nella storia per dimostrare quanto è erudito o quali grandi acrobazie stilistiche è in grado di compiere. Detesto la letteratura che non racconti ad ogni pagina, ad ogni riga, che non sia una voragine del racconto, quella in cui ci sono pagine e pagine in cui non succede nulla. Dopo aver letto quel tipo di libri, potrai compiacerti con l’autore, pensare che è bravissimo, che maneggia la tecnica da dio, che possiede un’erudizione straordinaria sulle ferrovie di inizio secolo o sulle ostriche della Papuasia, ma se ti ha raccontato poco o nulla, se non ti ha avvinto con la storia, quello è un libro fallito.

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