SOCIETÀ

L’università di Cambridge verso il no all’industria dei combustibili fossili

L’università di Cambridge è in procinto di votare, il prossimo autunno, una misura che le farebbe smettere di ricevere finanziamenti dall’industria dei combustibili fossili. Sebbene diverse istituzioni di ricerca nel mondo abbiano già iniziato a disinvestire dai settori responsabili di grandi quantità di emissioni climalteranti, quella di Cambridge sarebbe la prima università al mondo ad adottare una linea così drastica nei confronti dei produttori di gas, petrolio e carbone.

Sfruttando un antico sistema noto come grace, che permette agli accademici di avanzare proposte in merito al governo della propria università, i cantabrigensi mirano a non accettare più finanziamenti, sponsorizzazioni o altre forme di collaborazioni da compagnie che continuano a investire in infrastrutture per l’estrazione o per l’esplorazione di nuove riserve di idrocarburi. Lo stesso muro dovrebbe venire alzato nei confronti di aziende o associazioni che agiscono a livello legislativo, con azioni di lobbying, contro la lotta al cambiamento climatico.

La proposta sembra avere il supporto specialmente degli accademici più giovani e, tra le altre, di Fossil Free Research, una campagna promossa dagli studenti. Questi ultimi tuttavia non hanno possibilità di prendere parte al voto.

“Lavorando con l’industria dei combustibili fossili diamo loro legittimità e implicitamente diamo loro supporto” ha dichiarato al New York Times Luke Kemp, ricercatore che studia i rischi climatici a Cambridge, tra i promotori della proposta. “Questa dovrebbe essere una posizione davvero poco controversa per qualsiasi accademico che sia veramente preoccupato del cambiamento climatico”.

Il sito disinvestmentdatabase.org monitora quanti soldi le istituzioni globali scelgono di disinvestire dal settore dei combustibili fossili: degli oltre 40.000 miliardi di dollari già disinvestiti globalmente, le istituzioni che si occupano di formazione contribuiscono per poco più del 15%, quindi circa 6.000 miliardi di dollari. Tra queste figurano l’ università di Harvard, l’università di Oxford e anche quella di Cambridge. Quest’ultima già nel 2020 aveva annunciato, in seguito a campagne studentesche e di altri attivisti (tra cui Bill McKibben) che entro il 2030 avrebbe eliminato tutti i suoi investimenti diretti e indiretti in combustibili fossili e che avrebbe raggiunto la neutralità climatica delle proprie strutture e attività entro il 2038.

Una recente inchiesta del Guardian ha rivelato che negli ultimi 4 anni le più prestigiose università britanniche hanno ricevuto almeno circa 89 milioni di sterline dalle compagnie petrolifere.

Al primo posto c’è l’Imperial College di Londra, con 54 milioni di sterline, 39 dei quali provenienti da Shell, azienda con cui l’università ha un rapporto duraturo. L’università di Cambridge è al secondo posto con 14 milioni di sterline: tra i finanziatori risulta anche BP (British Petroleum). Al terzo posto c’è Oxford con 8 milioni di sterline.

L’inchiesta di Open Democracy ha considerato 36 università britanniche e 8 compagnie (BP, Shell, Total, Equinor, Chevron, Exxon, ConocoPhillip e l’italiana Eni) che hanno finanziato non solo progetti di ricerca, ma anche premi, sponsorizzazioni e donazioni. Tra i fondi ricevuti ci sono anche quelli per una posizione da professore proprio a Cambridge, finanziata da Shell.

“Queste donazioni consentono alle compagnie di ripulire la loro immagine, sostengono gli attivisti, appropriandosi di prestigio e credibilità ambientale anche se continuano a investire miliardi in nuovi progetti legati a combustibili fossili che, come sostengono gli scienziati, stanno riscaldando il pianeta fino livelli molto pericolosi” si legge sul New York Times.

Non è neanche corretto fare di tutta l’erba un fascio secondo James Hardy, portavoce dell’università di Cambridge: la partnership tra università e industria dei combustibili fossili “ha anche supportato ricerche d’avanguardia che sono fondamentali per la transizione energetica” ha dichiarato al New York Times. “I partner vengono scelti da commissioni di esperti dopo attente valutazioni, in quanto dotati di competenze altamente specialistiche, esperienza, dimensioni rilevanti e accesso al mercato globale”, ha puntualizzato. La possibilità di mantenere alcune collaborazioni tra Cambridge e queste aziende infatti potrebbe rimanere anche dopo la votazione prevista in autunno.

È sicuramente presto per dire se l’università di Newton e Darwin sarà l’apripista di un trend che porterà le istituzioni di ricerca globali a rivedere i propri rapporti con le industrie di gas, petrolio e carbone che non rispettino piani di decarbonizzazione compatibili con gli accordi di Parigi. Intanto però la sola iniziativa di mettere al voto la questione può aprire una riflessione che certamente non vale solo per le università d’oltremanica.

A maggio di quest’anno l’università di Stanford, in California, è stata duramente criticata dopo che la Doerr School of Sustainability, un istituto di ricerca sul cambiamento climatico nato grazie a 1,1 miliardi di dollari donati dall’imprenditore John Doerr, si è dichiarata aperta a ricevere donazioni dalle compagnie dei combustibili fossili. Centinaia di studenti, docenti e membri del personale hanno firmato una lettera aperta che invitava l’istituto a non accettare soldi da quel settore.

Ad aprile 2021 anche l’università di Padova ha firmato un accordo di collaborazione con Eni. “L’intesa della durata di tre anni, con la possibilità di estensione fino a cinque, consolida la collaborazione già avviata in settori cruciali per Eni” si legge nel comunicato uscito l’anno scorso, “come la geologia e la geofisica, e individua nuove linee strategiche di ricerca per lo sviluppo sostenibile e la decarbonizzazione: nuove tecnologie per la Carbon Capture, Utilisation and Storage e per lo sfruttamento dell’energia solare nonché studi sulla fusione nucleare a confinamento magnetico”.

Quello tra industria e mondo della ricerca è un dialogo quanto mai necessario per una società, la nostra, ad alto tasso di innovazione tecnologica e con forti esigenze di inclusione sociale.

Non è sempre semplice né immediato distinguere le operazioni di greenwashing dai legittimi investimenti nell’innovazione di cui la transizione ecologica ha certamente bisogno. Affinché la transizione sia rapida ed efficace sono anche e soprattutto le grandi industrie dei combustibili fossili che devono investire quanto prima e quanto più convintamente nella propria conversione produttiva.

Un recente lavoro pubblicato su Nature Communications mostra però chiaramente che gli scenari di decarbonizzazione presentati da alcune delle più grandi aziende del settore fossile (tra cui Shell e BP) non sono compatibili con gli obiettivi globali di contenimento del riscaldamento globale al di sotto di 1,5°C.

Le nostre società si trovano drammaticamente vicine a un punto di non ritorno, o meglio a molti punti di non ritorno, se si guarda ai cosiddetti limiti planetari (alcuni in realtà sono già stati superati). Quello che faremo nei prossimi 10 e 30 anni segnerà il futuro del pianeta per i decenni e i secoli a seguire.

Il mondo accademico ha un ruolo cruciale da giocare in questo momento storico e può contribuire in modo decisivo a rendere più o meno efficace la transizione ecologica. È importante allora che anche dal mondo accademico venga un segnale forte contro quelle aziende e associazioni che continuano a peggiorare il problema dell’eccessivo accumulo di CO2 in atmosfera, a dispetto di tutti rapporti e di tutte le direttive che dicono che, senza lasciar spazio al dubbio o all’esitazione, è tempo di cambiare rotta.

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