CULTURA

L’università delle donne. La genealogia femminista delle scienze umane ambientali

Se il percorso che ha portato le donne ad affermarsi in ambiente accademico è stato lungo e piuttosto accidentato, oggi esistono aree del sapere in cui è fondamentale riconoscere il contributo femminile e femminista. È il caso, per esempio, delle scienze umane ambientali, un settore di studi che assume particolare rilievo se collocato nell’ambito della crisi climatica in atto. Le donne ne sono le principali vittime, ma nel contempo le più inclini ad assumere comportamenti ecologici e a proporre un dibattito in merito.

Le scienze umane ambientali o Environmental Humanities sono un’area di ricerca nata recentemente per creare ponti tra discipline apparentemente distanti, come le scienze umane e le scienze naturali, nella convinzione che la crisi che stiamo vivendo sia talmente profonda che nessuna disciplina, se presa singolarmente, può avere un impatto davvero efficace. Si occupano, in particolare, di studiare la crisi ecologica nelle sue dimensioni etiche, culturali, filosofiche, politiche e sociali, invitandoci a riposizionare l’essere umano nell’ambiente e allo stesso tempo a riposizionare l’ambiente nello spazio della cultura, dell’etica, della giustizia. Questo invito ha una genealogia femminista che è fondamentale dichiarare.

Jennifer Mae Hamilton e Astrida Neimanis, in un articolo pubblicato nel 2018 su Environmental Humanities, invitano a riconoscere le radici antipatriarcali delle scienze umane ambientali e il contributo del femminismo per ripensare gli studi umanistici nel loro rapporto con l’ambiente. Se facciamo dialogare alcuni testi chiave delle Environmental Humanities con quelli del pensiero femminista, è facile accorgersi di come i saperi di genere siano una delle basi fondanti della disciplina nata all’inizio del nuovo millennio per creare un’etica dell’Antropocene.

Il soggetto delle scienze umane ambientali è un essere umano decentrato che ripensa la sua relazione di reciprocità con l’altro/a non-umano/a, abbandonando le pretese di universalità su cui si è costruita la cultura umanistica. L’uomo misura di tutte le cose si è rivelato essere un soggetto particolare, selettivo ed escludente: maschio, bianco, occidentale, europeo.

Le donne sono le principali vittime della crisi ambientale, ma nel contempo le più inclini a comportamenti ecologici: ne parla Chiara Xausa, dottoranda di ricerca di Studi di genere all'università di Bologna. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Barbara Paknazar

 

Come ricorda Rosi Braidotti nel 2014, il ripensamento più inclusivo del concetto di umanità è sempre stato centrale nella teoria femminista fin dalle sue origini: “l’Umanesimo – nella sua versione liberale come in quella socialista – è stato messo prima sotto esame dalle femministe radicali e in seguito dalle femministe della differenza, per i suoi tratti androcentrici, escludenti, gerarchici, ed eurocentrici”.

Possiamo fare un altro esempio: le scienze umane ambientali cercano di elaborare una risposta alla presunta universalità della scienza e di superare il confine tra le scienze dure – che non possono essere l’unica risposta alla crisi climatica – e le scienze umane e sociali in tutte le loro declinazioni.

Il lavoro di filosofe della scienza come Donna Haraway o Sandra Harding, a cui si devono le prime elaborazioni dell’epistemologia femminista e della non-neutralità della scienza, è dunque centrale nella creazione di una consapevolezza ecologica. In Situated Knowledges: The Science Question in Feminism and the Privilege of Partial Perspective, pubblicato nel 1988 e tradotto in italiano nel 1995 con il titolo Saperi situati: la questione della scienza nel femminismo e il privilegio di una prospettiva parziale, Haraway introduce per la prima volta il concetto di “saperi situati,” e afferma che la conoscenza è sempre parziale, nella doppia accezione di incompleta e di parte, non passiva, prodotta da soggetti sessualmente incarnati. Partendo dai processi che hanno portato alla nascita della scienza moderna, Haraway evidenzia come lo scienziato per eccellenza abbia assunto le caratteristiche dell’uomo bianco, occidentale, etero, che però non si è mai percepito come parziale: al contrario, si è percepito come neutro e universale. La stessa ricerca scientifica è stata a lungo percepita come oggettiva, impersonale, imparziale, basata sul distacco spassionato dello scienziato dall’oggetto della ricerca. Per Haraway, al contrario, la visione scientifica non è neutralità e distacco, ma corporeità, parzialità, coinvolgimento: solo saperi parziali, vulnerabili e impegnati garantiscono una conoscenza oggettiva. I saperi situati hanno avuto un’importanza fondamentale nello sviluppo delle scienze umane ambientali.

Il dibattito sull’Antropocene e sulla crisi climatica nasconde disuguaglianze e differenze culturali e sociali sotto l’apparenza di un indifferenziato antropos, la specie umana che è diventata una forza geologica in grado di influire sulle condizioni di abitabilità del pianeta: sembra dunque ritornare l’approccio universalistico che il femminismo ha sempre criticato. È chiaro come le riflessioni sulla neutralità della visione siano tornate a essere urgenti e le scienze umane ambientali possano aiutare a chiedersi chi sia compreso e chi sia escluso da questo antropos che tanto universale non è.

Un altro testo molto citato nell’ambito delle Environmental Humanities è Feminism and the Mastery of Nature della filosofa ed ecofemminista australiana Val Plumwood: in particolare, viene ripresa la sua analisi dei dualismi tra natura e cultura e tra umano e non-umano, sui quali si fonda la cultura occidentale. I due elementi oppositivi non sono sullo stesso piano: il primo si trova in una posizione gerarchicamente superiore, ma ha bisogno dell’altro elemento per giustificare la sua superiorità. Nelle scienze umane ambientali questi dualismi sono visti alla radice di tutte le crisi ecologiche, dal momento che consentono e giustificano la sottomissione, l’oggettivizzazione e lo sfruttamento della natura e dell’altro/a non-umano/a. Il lavoro di Plumwood è tuttavia molto più ampio e include anche i dualismi tra uomo e donna, civilizzato e selvaggio, bianco e nero, e riconosce il ruolo centrale del genere in queste opposizioni, considerate come strutture di discriminazione composite che si rinforzano a vicenda.

Questo non significa che tutte le scienze umane che si occupano di ambiente siano dichiaratamente femministe, ma che riconoscere la centralità dei saperi di genere nel ripensamento in chiave ecologica delle discipline umanistiche (dalla decostruzione femminista della nozione di umanità all’importanza dei saperi situati) non può che rafforzarne il potenziale.

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