SOCIETÀ

La macchinizzazione dell’umanità

Qual è, nell’epoca del digitale, il rapporto tra uomo e tecnologia? Davvero, nel prossimo futuro, le macchine potranno divenire intelligenti come gli esseri umani, come nei migliori racconti fantascientifici? Quali saranno le implicazioni sociali ed economiche della sempre più evidente e inevitabile pervasività delle tecnologie in ogni ambito della nostra vita?

Di questi e altri temi ragiona Andrea Daniele Signorelli, giornalista freelance, nel suo ultimo libro, Technosapiens. Come l’essere umano si trasforma in macchina, pubblicato da D Editore nel 2021.

Tutto nasce dall’esigenza di verificare se la possibilità che le macchine eguaglino gli uomini, arrivando a dominarli o soppiantarli – uno dei timori più diffusi dell’epoca tecnologica – abbia qualche fondamento: guardando alla realtà dei fatti, sembra in effetti che una simile paura sia infondata. È invece un altro lo scenario, ben più plausibile, che dovrebbe destare la nostra preoccupazione: la possibilità che siano gli uomini a divenire sempre più simili alle macchine.

L'intervista ad Andrea Daniele Signorelli. Servizio di Sofia Belardinelli, montaggio di Barbara Paknazar

Data simbolicamente centrale per l’avvento di questo “processo di fusione tra uomo e macchina” è, ricostruisce Signorelli, il 9 gennaio 2007: quel giorno Steve Jobs presenta al mondo il primo iPhone. Da quel momento, la tecnologia – e internet – sono divenuti parte essenziale della nostra vita quotidiana, quasi un’estensione del nostro stesso corpo, uno strumento del quale è impossibile fare a meno per svolgere quasi ogni attività. In soli quindici anni, le nostre vite sono cambiate completamente: basti pensare che in media, ogni giorno, ognuno spende 4-5 della propria vita utilizzando i propri dispositivi mobili (il che significa 120-150 ore al mese, ben 60 giorni l’anno!).

Questi strumenti, che con la loro sempre maggiore velocità ed efficienza promettono di garantirci più tempo libero e maggiore libertà, ci incatenano, in realtà, a un mondo virtuale che, nella maggior parte dei casi, arricchisce le tasche di pochi. Spiega Signorelli che «sia stato o meno un progetto consapevole fin dall’inizio, una tendenza è oggi facilmente rintracciabile, che segna un filo rosso tra le maggiori tecnologie disponibili: l’obiettivo è rendere i comportamenti umani più razionali, più efficienti, più veloci. In breve: più produttivi. Lo smartphone e le tecnologie che lo hanno seguito hanno accelerato la tendenza a cancellare il confine, prima invalicabile, tra vita professionale e vita privata, così come tra mondo online e mondo offline».

L’obiettivo è solo uno: rendere il lavoratore sempre più produttivo, estrarre da lui più lavoro in una data unità di tempo e cercare così di far proseguire la corsa della crescita economica, costi quel che costi. Andrea Daniele Signorelli, “Technosapiens”

Il sogno novecentesco di liberazione dell’uomo dal lavoro è stato tradito: la sempre maggiore efficienza raggiunta grazie ai rapidi sviluppi tecnologici non affranca l’uomo dal lavoro, ma, al contrario, rende il lavoro stesso sempre più frenetico, innalza costantemente gli standard di produttività in una corsa all’efficienza nella quale il termine di paragone non è più l’uomo, ma la macchina. Alle cui capacità noi umani dobbiamo adeguarci.

Tale torsione del mondo del lavoro, in cui mezzo e fine sono stati invertiti, genera due conseguenze, afferma Signorelli: «L’una è trattare l’essere umano come se fosse soltanto una risorsa – oggi si parla di “risorse umane”, appunto –, in modo del tutto incurante nei confronti del benessere psicofisico individuale; l’altra è l’estrema precarizzazione del lavoro a cui assistiamo da alcuni anni a questa parte. Tutto questo ha preoccupanti effetti collaterali: vivere in una costante insicurezza economica, essere incapaci di progettare il futuro incide pesantemente sulla qualità della vita. Questa incertezza diffusa si sta riflettendo in un rapido incremento dei disturbi della salute mentale: solitudine, ansia, depressione sono alcuni dei mali più diffusi nelle cosiddette società del benessere – una vera e propria epidemia, secondo alcuni studiosi».

Ma in una società che mira unicamente all’aumento costante del valore economico, sembra non esserci scampo. E così, per aumentare la nostra produttività e soddisfare le richieste del sistema economico, siamo costretti a far ricorso a tecnologie e biotecnologie sempre più invadenti, come le pillole – alcune ancora in fase di studio – per annullare l’ansia o il senso di solitudine, o come i visori in realtà aumentata e le interfacce cervello-computer che, una volta affinate, promettono di farci vivere un’esistenza costantemente “aumentata”, in cui la connessione alla rete, la reperibilità, la produttività saranno la norma.

Per sostenere un’economia “turbocapitalista” come quella odierna, produrre con sempre maggiore efficienza non è sufficiente: alla produzione, infatti, deve affiancarsi un altrettanto rapido e costante tasso di consumi. E a consumare devono essere i lavoratori stessi: sfruttati durante l’orario di lavoro, gli individui diventano target delle aziende anche nel tempo libero, attraverso il bombardamento di annunci, offerte e promozioni. Con internet, questa tendenza ha subìto una brusca accelerazione: la nostra interazione con il mondo online, infatti, genera un’immensa mole di dati, risorsa preziosa per orientare i consumi e per adattare il mercato, in nome – ancora una volta – dell’efficienza e della produttività crescenti.

«Un parallelismo spesso ricordato è quello tra big data e petrolio», spiega Signorelli. «Non è un’analogia del tutto corretta, ma è utile per comprendere il valore dei dati: estratti allo stato grezzo, vengono acquisiti – gratuitamente – dalle grandi aziende che li usano per trarne informazioni preziose per indirizzare la produzione e orientare il mercato. Presa consapevolezza della centralità dei dati nel capitalismo attuale, c’è chi ha proposto, sulla base del parallelismo con il petrolio, la nazionalizzazione dei big data: la proprietà di questo bene dovrebbe essere di chi li produce, cioè dei cittadini e delle nazioni da cui i dati vengono prodotti ed estratti. Sapendo che i big data sono destinati, nei prossimi anni, ad aumentare vertiginosamente (pensiamo all’espansione della internet of things, che già consta di decine di miliardi di dispositivi e che, nei prossimi anni, si espanderà a macchia d’olio in tutto il mondo), e che avranno un valore economico sempre maggiore, non dovremmo accettare che tutti i guadagni di questo settore industriale – il cui “petrolio” è prodotto quotidianamente da noi utenti – vadano esclusivamente ai colossi tecnologici».

Senza contare tutti i possibili utilizzi dei nostri dati non strettamente legati al mercato: la raccolta di dati ha reso improvvisamente realizzabili alcune delle più famose – e temute – distopie incentrate sulla possibilità di sorvegliare costantemente gli individui. In Cina, racconta Signorelli, la sorveglianza è già realtà: nel 2014 è stato avviato un progetto sperimentale che consiste nel ricevere una valutazione (positiva o negativa) per ogni comportamento che si mette in atto, accumulando così un punteggio che va a formare una classifica dei bravi cittadini. Si chiama Social Credit System, e mira a incentivare le pratiche considerate virtuose attraverso la penalizzazione di chi mette in atto comportamenti ritenuti negativi. Un punteggio negativo potrebbe rendervi la vita difficile: non potreste più ricevere un prestito dalla banca, entrare nei negozi, e addirittura camminare liberamente per la strada potrebbe essere interdetto a chi non ne fosse meritevole.

Ogni volta che accettiamo di subire più sorveglianza per avere in cambio una maggiore (e presunta) sicurezza, cediamo inevitabilmente una parte di libertà. Non è possibile avere il massimo di libertà e il massimo di sicurezza. Andrea Daniele Signorelli, "Technosapiens"

Come uscire da questo circolo vizioso, come far sì che le premesse per un futuro distopico non si tramutino in realtà? «È indubbio – afferma Signorelli – che alcune tendenze siano già in atto: in alcuni casi la strada è già tracciata, e difficilmente non verrà percorsa. Pensiamo al rapido sviluppo di nuove e più pervasive tecnologie (già esistenti o comunque in fase di progettazione), come quelle sviluppate dalla società Neuralink, co-finanziata da Elon Musk, che mirano a integrare la realtà aumentata nell’esperienza quotidiana attraverso la creazione di un’interfaccia macchina-cervello.

Tuttavia, si sta verificando una generale presa di coscienza. Per anni, tutti abbiamo accettato passivamente di usare (e di farci usare da) queste tecnologie: non si aveva ancora sufficiente esperienza e conoscenza per comprendere cosa stesse avvenendo, per valutare criticamente lo storytelling di Big Tech. Oggi, invece, la narrazione sta finalmente cambiando: la traiettoria è sì tracciata, ma sembra delinearsi nella società la volontà di provare a modificare questa traiettoria. La sfida, ora, è capire come agire: siamo a un momento di svolta, nel quale – credo – i piccoli aggiustamenti non saranno sufficienti. Dovremo avere il coraggio di alzare la voce, di ribellarci a pratiche che ledono la nostra dignità, i nostri diritti». La “macchinizzazione dell’umanità” è forse già iniziata, è vero; ma abbiamo ancora la possibilità di fermarla.

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