SOCIETÀ

Il capitalismo della sorveglianza nella società trasparente

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Questo è uno dei tanti pop-up che compaiono quando visitiamo per la prima volta un nuovo sito web. Spunta dal basso o dall’alto, si sovrappone al testo o alle immagini della pagina e ne impedisce la visione. Quasi sempre ce ne liberiamo con un nervoso click: “Accetta tutti i cookie”.

È questa la principale modalità, volontaria ma per lo più inconsapevole, con cui cediamo a soggetti terzi i dati del nostro comportamento online. Sarebbe del resto difficile fare altrimenti. È stato calcolato, nel 2008, da due docenti della Carnegie Mellon University (Pittsbourgh, Pennsylvania) che impiegheremmo 76 giorni per leggere tutti i termini e condizioni delle politiche sulla privacy e sul trattamento dati che incontriamo ogni anno in internet. Così, senza pensarci, clickiamo e navighiamo.

Shoshana Zuboff, nel libro uscito a ottobre 2019 per LUISS University Press, Il capitalismo della sorveglianza – il futuro dell’umanità nell’era dei nuovi poteri (oltre 600 pagine), analizza il modello economico dei colossi del web che grazie alla raccolta dei dati si sono straordinariamente arricchiti e ne denuncia gli aspetti più inquietanti.

Ogni ricerca su Google equivale a confessare al colosso di Mountain View cosa ci frulla per la testa in quel determinato istante. Ogni Mi piace o Condividi espresso su Facebook rivela i nostri gusti e le nostre preferenze, particolari preziosi che vengono immagazzinati, analizzati ed elaborati da sistemi di intelligenza artificiale per creare profilazioni degli utenti, "prodotti predittivi" li chiama Zuboff. Questi vengono scambiati in un nuovo tipo di "mercato per le previsioni comportamentali", definiti mercati dei comportamenti futuri, le cui dinamiche spingono i capitalisti della sorveglianza ad acquisire fonti sempre più predittive: "le nostre voci, le nostre personalità, le nostre emozioni". Tale commercio genera profitto e alimenta l’industria della pubblicità e delle campagne di comunicazione.

È il mercato dei dati, uno dei più redditizi della nostra era, letteralmente il petrolio del XXI secolo. Non conosciamo bene le sue diramazioni ma sappiamo che Apple, Alphabet (Google), Amazon, Facebook e Microsoft hanno da qualche anno scalzato, e ora ampiamente staccato, le compagnie petrolifere in vetta alla classifica delle società con maggiore capitalizzazione. I dati sono la merce più richiesta della nuova economia digitale. È stato un mutamento veloce, di cui pochi si sono accorti, ma radicale. Si pensi che il primo i-Phone è stato presentato al mondo nel giugno del 2007 e oggi ci sono miliardi di dispositivi tra smpartphone, tablet e personal computer connessi in rete che contengono app che registrano i dati degli utenti. Solo Google possiede 2,5 miliardi di server in 4 continenti.

Il libro di Shoshana Zuboff, classe 1951, accademica di Harvard (laurea in filosofia e dottorato in psicologia sociale), è ritenuto da molti un’opera fondamentale dei nostri tempi, alcuni addirittura l'hanno definito Il Capitale di questa generazione. Se infatti il combustibile del capitalismo industriale di Marx era la forza lavoro della classe operaia, quello del capitalismo della sorveglianza sono i dati prodotti dai nostri comportamenti, sia online sia offline, che gratuitamente cediamo per lo più ai colossi del web, ma non solo.

Il capitalismo della sorveglianza ha avuto diverse fasi, ma la svolta decisiva arriva con il volgere del nuovo millennio e non sono le compagnie dell’informazione e della comunicazione (Ict – information and communication technology) a fare il primo passo, ma i governi, quello statunitense in particolare.

“La data chiave in questa storia è l’11 settembre 2001” commenta Fabrizio Tonello, professore del dipartimento di scienze politiche, giuridiche e studi internazionali dell’università di Padova, “perché ha legittimato la sorveglianza di massa con l’obiettivo apparentemente ragionevole di tenere sotto controllo i potenziali attacchi terroristici”. Lì si è deciso di cedere un po’ della privacy individuale in favore di una presunta maggiore sicurezza. “Il programma della NSA (National Security Agency statunitense, ndr) rivelato da Edward Snowden nel 2013 si basava sull’idea che tutte le comunicazioni digitali dei cittadini statunitensi potevano essere intercettate. La privacy della corrispondenza è un diritto fondamentale tutelato dalla Costituzione, ma questa obiezione è stata aggirata sostenendo che la sorveglianza riguardava i mezzi di comunicazione e non i contenuti delle telefonate o dei messaggi. Un argomento debole ma che finora è stato accettato”.

Un’altra data fondamentale è il 2002, quando Google inventò la pubblicità mirata, il target advertising. Conoscere i desideri del consumatore è sempre stato il sogno proibito dei pubblicitari. La televisione commerciale ha introdotto in ciascuna casa un canale che parlava a un’intera famiglia. Strumento rozzo, impreciso, diremmo oggi. Tramite il personal computer ci si può rivolgere direttamente al singolo individuo. Con un metafora bellica, se con la televisione i pubblicitari lanciavano una bomba a mano, oggi con smartphone, tablet e pc dispongono di fucili di precisione.

Nel 2004 Mark Zuckerberg fonda Facebook: per ottenere i dati personali non occorre più spiare la corrispondenza, come si è scoperto faceva Gmail. Sono gli utenti stessi, dai loro account, a caricare volontariamente foto e a esprimete preferenze musicali, politiche, di abbigliamento con i tasti Mi piace e Condividi.

“Zuboff parla di capitalismo della sorveglianza perché in questi anni non sono più soltanto i governi a sorvegliare i cittadini, ma soggetti privati, monopoli come Google, Facebook, Amazon” spiega Tonello.

Negli anni le tecniche di raccolta, estrazione e analisi di dati si sono notevolmente affinate. Le compagnie dell'Ict hanno investito in ricerca e hanno assunto i più brillanti fisici, matematici e informatici pagandoli più di quanto non offrissero altri settori. Questi ricercatori hanno capito che non sono i dati forniti esplicitamente dagli utenti quelli più preziosi per la profilazione: sono quelli che implicitamente vengono forniti mentre si utilizzano internet, i social network e le app collegate in rete. Richiamandosi ancora al lessico marxista, Zuboff lo definisce il surplus comportamentale.

I dati che contano sono gli orari a cui ci colleghiamo a certe app o social network, i filtri che scegliamo per le foto, le emoji (faccine) che mettiamo in un testo, l’uso che facciamo della punteggiatura, le espressioni che abbiamo nei selfie, le esitazioni nei messaggi vocali. Questi dettagli vengono registrati, combinati con le teorie della psicologia comportamentale individuale e sociale, analizzati ed elaborati con la statistica e i sistemi di calcolo, finendo per fornire i profili psicologici che diventano i target della pubblicità mirata. In un mondo di sovraffollamento informativo, per vendere un prodotto occorre essere sicuri di arrivare a parlare dritti in faccia al cliente. Le aziende dunque comprano queste preziose informazioni che usano per confezionare i propri messaggi pubblicitari mirati.

Ma i destinatari delle campagne di comunicazione non sono semplicemente i singoli individui, ma le loro pulsioni profonde. Non il loro lato razionale, ma i desideri inconsci: rivolgersi a questi è più redditizio. Il lato dionisiaco viene preferito a quello apollineo, e viene stimolato, fatto emergere.

E qual è il fine ultimo di questa poderosa macchina? “Raggiungere i risultati commerciali desiderati” scrive Zuboff. Il profitto.

Alcuni potrebbero dire che potrebbe andare anche peggio: non viviamo in una società orwelliana, le profilazioni e le pubblicità mirate non vengono usate per imporre il conformismo o l’obbedienza, non mirano a instaurare una dittatura globale. Il rischio di manipolazione in questo impianto però c’è e non è più solo un rischio. Lo scandalo Cambridge Analytica, svelato dalla giornalista Carole Cadwalladr e dall’informatore Chris Wylie, ha rivelato che il mercato dei dati può essere sfruttato per campagne di comunicazione a scopi elettorali, arrivando a scuotere l’assetto democratico di grandi nazioni occidentali come gli Stati Uniti o il Regno Unito.


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I dati sulle nostre preferenze alimentano anche gli algoritmi dei social network che sempre di più sono la fonte di informazione primaria, soprattutto per quanto riguarda i cittadini più giovani. Il meccanismo di pre-selezione dell’informazione operato da Facebook rischia di chiudere ciascuno in una bolla virtuale di informazione confezionata su misura, in cui tutto è conforme alle convinzioni pregresse dell’utente.

Ecco allora che l’illusione della gratuità dei servizi delle app e dei social network si tramuta in una limitata possibilità di scegliere come voler vedere il mondo.

“Abbiamo barattato la privacy con comodità di scarsissima importanza” commenta Tonello. “La riservatezza nell’800 e nel ‘700 era considerata un valore sacro, tutte le Costituzioni la tutelano esplicitamente, inclusa quella italiana”. A questa svendita della riservatezza si associa un’idea pericolosa, “ovvero che tutte le nostre vite debbano essere trasparenti. Alle origini di Facebook, Zuckerberg, per giustificare la sua raccolta dati, aveva detto che la società trasparente è un ideale democratico, rivelando la sua abissale e per noi catastrofica ignoranza, perché in realtà la società trasparente è stato sempre un ideale totalitario. Tutti i regimi totalitari avevano e hanno lo scopo principale di rendere i cittadini trasparenti al potere”.

È legittimo, da parte dei cittadini, chiedere trasparenza ai governi e alle strutture che amministrano il potere. Questa richiesta è stata però rovesciata e con la promessa populista della gratuità dei servizi è stata proposta, dai governi prima e da soggetti privati monopolisti poi, la società trasparente.

“Neppure un raffinatissimo scrittore come George Orwell in 1984 era riuscito a prevedere un sistema di controllo più efficace di un televisore in casa. È l’idea del Panopticon, la prigione da cui un unico guardiano controlla tutti i detenuti, un tema che è stato affrontato in una letteratura sconfinata, a partire da Sorvegliare e punire di Foucault”.

Prima di tuffarci entusiasticamente nel mercato dei dati non abbiamo mai riflettuto, e ancor meno riflettuto a sufficienza, su cosa significhi una società interamente trasparente, sottolinea Tonello. “Già è discutibile e probabilmente anticostituzionale che i governi dispongano di questa massa di dati sui cittadini. Il fatto che li abbiano soggetti privati è del tutto al di fuori da come i padri fondatori si immaginavano dovesse funzionare la società democratica”.


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Eppure questa è la realtà con cui oggi dobbiamo fare i conti. Si possono pensare alcune vie d’uscita, alcune più drastiche di altre, tutte però difficili tecnicamente da realizzare. Elizabeth Warren, candidata alle primarie del Partito Democratico statunitense, ha sollevato una questione di anti-trust, proponendo lo scorporamento del potere monopolistico concentrato nelle mani dei colossi del web.

Un’altra strada potrebbe essere quella di scrivere leggi più stringenti e meno permissive sulla raccolta dati, specialmente quelli cosiddetti “sensibili”, come i dati medici o genetici. “Regolamentazione” è sempre stata una parola che ha fatto venire l’orticaria agli imprenditori della Silicon Valley, che della libertà di internet hanno fatto quasi un mito fondativo. L’Europa è tendenzialmente meno permissiva rispetto agli Stati Uniti sulla gestione e il trattamento dei dati e ha un approccio che mira a tutelare la persona, la sua dignità e le sue aspirazioni. Proprio pochi giorni fa Mark Zuckerberg è volato direttamente a Bruxelles per discutere con i commissari europei responsabili di digitale, mercato interno e trasparenza della strategia europea per la gestione dei dati.

La rivoluzione dei dati è già iniziata e continuerà nei prossimi anni. Si calcola che nel 2018 siano stati prodotti 33 zettabyte (1021 byte) di dati e che entro il 2025 questo valore è destinato a quintuplicarsi, fino a 175 zettabyte. Alcuni, come Carl Sunstein, professore ad Harvard e consigliere della prima amministrazione Obama, sono convinti che non tutta la sorveglianza venga per nuocere. Essere informati sul nostro comportamento collettivo può diventare uno strumento per servire meglio le nostre preferenze: può migliorarci la vita. I big data comportamentali possono essere usati per correggere le nostre devianze, attraverso una persuasione gentile, che nel gergo viene chiamata nudge. Anche secondo Zuboff la manipolazione non è l’unico esito possibile, l’uomo è padrone del proprio destino e sta a lui imparare a disporre dei prodotti del suo ingegno. Secondo l’autrice però il nudging è una soluzione paternalistica, che non risolve i problemi esistenti ma legittima lo status quo.

Occorrono allora soluzioni più drastiche? Qualche idea c'è, va nella direzione di un beneficio distribuito e condiviso derivante dall'uso dei dati, ma è ancora lontana da una realizzazione effettiva. Un parallelismo ad esempio può essere fatto con il settore delle energie rinnovabili, dove ciascuno può produrre energia elettrica tramite pannelli fotovoltaici e immettere l’eccesso in rete con un vantaggio finanziario. Giacché ciascuno è proprietario dei propri dati personali, la cessione di questi può avvenire, ma con un vantaggio per il singolo individuo. La costruzione di un mercato distribuito e non fortemente centralizzato al momento appare però ancora difficile da realizzare.

Il capitalismo della sorveglianza è già forte ma solo all’alba della sua era. Il suo potere risiede nel conoscere il comportamento umano e poterlo influenzare a vantaggio di pochi. Non dispone di eserciti, ma di una rete computazionale di dispositivi intelligenti, di oggetti (Internet of Things) interconnessi tra loro. È monopolistico, viola la privacy, riduce a merce i comportamenti umani e attraverso il loro commercio consente arricchimenti eccezionali. Sfrutta le falle del nostro ragionamento (i bias cognitivi) e applica le conoscenze delle scienze sociali (la behavioural economics) per generare profitto. In un futuro che si prospetta di smart cities e strade piene di sensori che raccolgono i dati sui flussi di traffico, occorre avviare una discussione condivisa su come gestire i benefici derivanti dall’uso dei dati per evitare gli esiti distopici paventati da Zuboff. Se non verrà opportunamente gestito e incanalato il capitalismo della sorveglianza, sostiene Zuboff, rischia di essere per l’umanità quello che il capitalismo industriale è stato per la natura: un lento e silenzioso consumo.

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