Il mondo è cambiato. Quello dell’informazione in particolare. Molti dicono in peggio e attribuiscono la colpa all’avvento di internet e dei social network. Ma come scrive Roberto Reale, in un capitolo di La passione per la verità – Come contrastare fake news e manipolazioni e costruire un sapere inclusivo, da poco pubblicato per Franco Angeli editore, le risposte semplici ai problemi complessi sono facili da percepire e diffondere, ma quasi sempre sono sbagliate.
Il libro curato da Laura Nota, delegata del rettore per l’inclusione e la disabilità e direttrice del laboratorio Larios, raccoglie, amplia e aggiorna le relazioni presentate al convegno sulla corretta informazione tenutosi il 10 maggio 2019 nell’ambito del master “Inclusione e innovazione sociale”, diretto da Nota. Due sono i perni attorno a cui si snoda la trattazione: l’inclusione, declinabile in molti ambiti (dalla disabilità alla diversità, passando per la sostenibilità), e l’informazione. Oltre a tenere insieme questi due concetti, il libro è il frutto di una collaborazione tra mondo del giornalismo e università. A ottobre dell’anno scorso, l’università di Padova e la Federazione Nazionale della Stampa Italiana (Fnsi) avevano firmato un protocollo d’intesa per la promozione di azioni formative congiunte, di cui il libro è un primo risultato. La prefazione e l’introduzione sono scritte rispettivamente dal rettore Rosario Rizzuto e dal già rettore Vincenzo Milanesi, mentre tra gli autori dei capitoli ci sono il presidente della Fnsi Giuseppe Giulietti e l’autore di Otto e mezzo, con Lilli Gruber su La7, Paolo Pagliaro.
Intervista a Roberto Reale, giornalista, tra gli autori di "La passione per la verità" (2020) Franco Angeli, Milano.
Negli ultimi anni la quantità di informazione cui ciascun individuo è sottoposto è esplosa in una moltitudine incontrollata di canali. Nel nuovo ecosistema informativo i giornali della carta stampata, fino a pochi anni fa ancora saldamente in cima alla gerarchia dell’autorevolezza, si trovano a competere sullo stesso piano non più solo con radio e televisione, ma con la costellazione di internet e i nuovi linguaggi della multimedialità: l’intrattenimento, la satira, le notizie e persino il non sense sono tutti ammucchiati sullo stesso tavolo. Ogni individuo è insieme consumatore e produttore di contenuti e l’attenzione dell’utente è la risorsa più preziosa che le grandi compagnie delle telecomunicazioni così come i piccoli influencer si contendono come predatori. È una battaglia senza quartiere in cui le regole sono poche, tutto è lecito. L’informazione, il cui fine è la conoscenza, si fonde con la comunicazione, dominata dalla volontà di persuasione. Di particolare efficacia risultano le notizie urlate e i sensazionalismi che fanno leva su reazioni istintive del nostro sistema cognitivo. Tra queste vi sono la paura e il senso di appartenenza, i nostri pregiudizi e le visioni del mondo pregresse, che, come riportano le psicologhe Sara Santilli, Maria Cristina Ginevra e Ilaria Di Maggio, si sostituiscono ai criteri di discernimento ragionati e al dialogo, molto più faticosi e meno redditizi.
In un contesto sovraffollato e rumoroso è facile rimanere spaesati e non riconoscere la merce di qualità da quella contraffatta. È così che si diffondono nella popolazione le tesi negazioniste sul cambiamento climatico o che riaffiora l’odio razziale supportato da tesi cospirazioniste. È la post verità, bellezza, parola dell’anno 2016 per l’Oxford Dictionary, che sta a indicare l’incapacità del cittadino di riconoscere il vero dal falso.
In questo mondo trasfigurato anche il mestiere del giornalismo perde il suo tradizionale ruolo di filtro professionale tra cittadino e accadimenti, sommerso da una competizione spontanea, non avallata dal medesimo cursus honorem, ma cionondimeno travolgente. E se l’informazione tradizionale viene destituita dal suo abituale ruolo di quarto potere, come avrebbe detto Orson Welles, o di cane da guardia del potere, come lo intendeva Joseph Pulitzer, è tutto l’impianto democratico a tremare e a subirne le conseguenze.
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Ciascun capitolo del libro è un approfondimento in uno degli ambiti interessati dalla rivoluzione dell’ecosistema informativo, che a seconda delle sfumature e delle interpretazioni degli autori viene declinato in disordine informativo o disintermediazione.
Per capire ad esempio l’impatto delle parole d’odio (hate speech, cui il governo ha ora dedicato un apposito gruppo di lavoro) occorre comprendere il contesto in cui queste si inseriscono. L’Italia è uno dei Paesi in cui la distanza tra percezione e realtà, soprattutto in merito a temi caldi come l’immigrazione, è più grande rispetto a tutti gli altri Paesi europei. Secondo i dati di un recente sondaggio Ipsos, commissionato da Weworld Onlus, la maggioranza dell’opinione pubblica italiana è convinta che gli immigrati superino il 30% della popolazione, quando in realtà si assestano tra l’8% e il 9%.
Le parole d’odio, fa notare in un capitolo Enrico Ferri, giornalista, affollano il linguaggio spesso sguaiato di alcuni social network, ma si insinuano anche in alcuni titoli della carta stampata: “Strage di clandestini in mare. Barcone a picco: 26 dispersi” (La Repubblica, 15 maggio 2003 – chi lascia un Paese per fuggire da uno stato di calamità, prima di varcare il confine di un altro, non può essere clandestino, tanto più se si trova in mare).
Il male non è dunque tutto da una parte e il bene dall’altra. Non è internet, banalmente inteso, il solo sogno di libertà tramutatosi in incubo distopico. La realtà, quella odierna in particolare, è complessa, oltre ogni nostra più fervida immaginazione. “Il nostro presente è contrassegnato da assillanti progressi tecnologici” scrive Reale, “da problemi sociali crescenti, fratture generazionali e non possediamo facili formule vincenti per padroneggiare gli eventi. Se restassimo in superficie potremmo anche dividerci fra chi attribuisce la responsabilità dei nostri problemi a internet, chi agli algoritmi dei social, chi alla televisione, alla scuola, al giornalismo, all’ignoranza diffusa, al fatto che si leggano pochi libri. Ma sono tutte scorciatoie”. Il problema deve essere affrontato alla radice: “Dobbiamo ragionare pensando come chi vive in un ambiente inquinato e sente la necessità di una nuova risposta ecologica che in questo caso riguarda l’informazione”.
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Le proposte del capitolo di Paolo Pagliaro danno un’idea di cosa debba essere questa risposta ecologica di parla Reale. Non è sufficiente l’impegno del solo mondo dei media, tutti gli attori della società devono essere coinvolti per ridurre la distanza tra la realtà e la sua rappresentazione che si è venuta a creare: “l’industria dei media tradizionali e l’industria tecnologica, il mondo della pubblicità, i giornalisti e le giornaliste, il governo, il parlamento, la scuola e l’università, i singoli cittadini e cittadine nelle loro vesti di consumatori di informazione”, ciascuno deve impegnarsi nell’ambito delle proprie competenze, capacità e responsabilità.
La sfida collettiva è impegnativa e sul lungo termine. Da qualcosa bisogna però iniziare e secondo Salvatore Soresi, fondatore del laboratorio Larios e del Centro di ateneo di servizi e ricerca per la disabilità, la riabilitazione e l’integrazione, si può partire dal linguaggio e dalle parole utilizzate dai professionisti della comunicazione e dell’informazione, che contribuiscono al consolidarsi o all’affievolirsi di quei luoghi comuni, pregiudizi e stereotipi, che possono generare contesti inclusivi ma, anche e più spesso, alzare muri. Le parole sono cose, e ancor di più sono azioni, atti linguistici li chiamava John Austin, e sono le lenti attraverso cui inconsapevolmente guardiamo il mondo, sia online sia offline.