SOCIETÀ

Quel "Madame le président" che tutto cambiò

Dopo anni (anzi secoli) di riluttanza, anche un baluardo della ‘resistenza al maschile’ come l’Académie française cede al femminile dei nomi delle professioni. Nella seduta del 28 febbraio scorso, infatti, l’istituzione che dal 1635 raccoglie studiosi e letterati a vigilare sull’evoluzione della lingua francese, ha adottato a larga maggioranza l’introduzione, nel suo Dizionario, della declinazione al femminile dei nomi di mestieri e funzioni. Il dibattito ebbe inizio a ottobre di cinque anni fa quando il deputato Julien Aubert appellò con la famosa frase "Madame le président" la donna che allora dirigeva i lavori all’Assemblea Nazionale francese. All’accaduto l’Académie, forte di essere ‘fedele alla missione che le era stata affidata al momento della sua fondazione ai tempi del cardinale Richelieu’ era insorta sostenendo che in francese ‘il genere femminile serve solo a fare la distinzione tra maschio e femmina e non ad altro’ e che il femminile dei nomi di professione talvolta veniva usato anche contro il volere delle stesse interessate. Oggi la celebre Accademia, presieduta dal 1990 dalla storica Hélène Carrère d'Encausse, ha stabilito che il femminile dei nomi di professione «non costituisce una minaccia per la struttura delle lingua» e quindi può essere utilizzato. E nel nostro Paese a che punto siamo rispetto all’utilizzo dei nomi di professione? Ne disegna la situazione Michele Cortelazzo, linguista e direttore della Scuola Galileiana di Studi Superiori di Padova.

Si discute molto nel nostro Paese della correttezza o meno di termini come ‘ministra’,‘sindaca’, ‘avvocata’, ‘presidente’ (quando riferito a donna). Cosa dice la nostra grammatica rispetto a questo?

Fare riferimento alla grammatica come se fosse una legge ineluttabile che prescinde dagli usi dei parlanti e detta norma immutabili, è dare una visione imprecisa di questo aspetto della lingua. Possiamo però dire che in generale l’italiano attribuisce il genere ai nomi di mestiere, professione, carica quando si riferiscono a una persona specifica. Chi alle scuole elementari ha avuto una donna come insegnante, parla della sua maestra; chi invece, come è accaduto a me, ha avuto un uomo, si ricorderà del suo maestro. Su questo non dovrebbero esserci dubbi, come non dovrebbero esserci dubbi nell’applicare questa regola a qualsiasi nome di professione. Più delicata e complessa la questione quando ci si riferisce a una carica o a una professione in generale, cioè senza riferimento a una persona specifica. Per esempio, nella frase ‘gli accertamenti e i trattamenti sanitari obbligatori sono disposti con provvedimento del sindaco’ si usa il maschile, come categoria non marcata (ci si riferisce, cioè, alla carica in astratto, che poi viene ricoperta, caso per caso da una donna o da un uomo). In una lingua con due generi grammaticali, è inevitabile ricorrere a uno dei due (e anche le lingue che hanno il genere neutro, di solito non lo usano per neutralizzare la distinzione tra maschile e femminile). Storicamente, la funzione di genere non marcato è stata assunta dal maschile. Fin qui la grammatica. Ma è intuitivo (e gli studi lo confermano) che questo uso, grammaticalmente regolare, può generare stereotipi di genere. Sono state, quindi, individuate strategie espressive per evitare di ricorrere al maschile non marcato.

Se la lingua fornisce regole ben precise che ci insegnano a parlare e scrivere in modo corretto perché si continua a utilizzare e accettare di comunicare anche attraverso quelli che possono essere considerati veri e propri ‘errori’? Spesso si dice che un termine ‘suona male’. Perché c’è ancora reticenza rispetto all’uso di alcuni termini al femminile?

Cosa c’è di cacofonico in avvocata rispetto ad avvocato? Sfido chi sostiene che avvocata suona male a spiegarmelo. In realtà, quando diciamo che “suona male” ci riferiamo al fatto che non siamo abituati a sentire quella forma e, per questo, ci suona strana. La “stranezza” è però che le donne abbiano iniziato a ricoprire certe cariche o a svolgere certe professioni solo in tempi molto recenti (l’ingresso delle prime donne in magistratura è, per esempio, del 1963; prima le donne era addirittura escluse dai concorsi). La mancanza di precedenti ha causato incertezze linguistiche (incomprensibili dal punto di vista della lingua, spiegabili dal punto di vista degli stereotipi sociali), anche se già dalla seconda metà dell’Ottocento esisteva l’esempio delle dottoresse e delle professoresse (oltre che delle studentesse).

Il problema sembra porsi quando si discute di cariche istituzionali o di prestigio, non però quando si parla di lavori di altro tipo come ‘la benzinaia’, ‘la barista’ o ‘la contadina’, ‘l’infermiera’ e ‘la cameriera’. C'è anche una componente 'classista' nell'utilizzo della nostra lingua?

Nella mancata femminilizzazione dei nomi di cariche e professione c’è certamente una componente classista: solo così si può spiegare la differenza tra il trattamento dei nomi dei mestieri e quello dei nomi delle professioni.

In Italia qual è oggi la situazione rispetto all’utilizzo dei nomi di professione?

La situazione sta cambiando radicalmente. Mentre rimangono virulente le polemiche, nell’uso si sta estendendo sempre più il ricorso al femminile, con esiti diversi da parola a parola: sindaca è ormai generalizzato, maggiori resistenze trova ministra, incomincia a essere usato avvocata, fino a pochi anno fa forma rifiutata (ora, invece, si è giunti anche ad accordi espliciti, come il protocollo d’intesa tra avvocati, procura e tribunale di Bergamo).

Non sono rari i casi di donne che chiedono ancora espressamente di essere definite, rispetto alla loro professione, con un nome al maschile: ‘avvocato’, ‘sindaco’, ‘chirurgo’ per ribadire l’importanza del loro ruolo. Come si può spiegare questo fenomeno?

Alla base c’è il timore che l’attribuzione del genere femminile possa sminuire l’autorevolezza della carica o della professione svolta da una donna. È esemplare, ma a mio parere totalmente incomprensibile, l’atteggiamento della pPresidente del Senato, che a proposito di sé stessa ha imposto il maschile (si è allineato persino il Quirinale, che pure al momento dell’affidamento alla senatrice Casellati di un mandato esplorativo per la formazione di un governo, nell’aprile del 2018, usava il femminile). Ma le pretese individuali di governare l’uso linguistico altrui sono un fortissimo vulnus al carattere sociale, e non individuale, della lingua.

Il problema è culturale prima che di linguaggio. Quanto può servire quindi, essere in grado di comunicare in modo corretto anche per quanto riguarda le differenze di genere?

C’è chi sostiene che è inutile intestardirsi sulla lingua; quello che conta è sviluppare azioni concrete per rompere il soffitto di cristallo che impedisce, o almeno limita, la possibilità delle donne di occupare ruoli di prestigio negli enti, nelle imprese, nelle istituzioni. La critica sarebbe valida se l’attenzione alla lingua e quella per le azioni concrete fossero attività alternative. Invece, l’attenzione alle scelte linguistiche, che comportano un alto valore simbolico, rafforza le azioni concrete, proprio perché svela la debolezza dell’atteggiamento rispetto alla donna di molti settori della società (composti da uomini, ma anche da donne).

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