SCIENZA E RICERCA

Mammiferi. Uno studio indaga perché le femmine vivano mediamente più a lungo

Se le donne sopravvivono in media più a lungo degli uomini, sorge spontaneo chiedersi se ciò valga anche per le femmine delle altre specie di mammiferi e quali fattori possano essere la causa di questa differenza.

In un recente studio pubblicato su Pnas, Jean-François Lemaître, del laboratorio di biometria e biologia evolutiva dell'università di Lione, ha analizzato, insieme al suo team di ricerca, dei dati demografici raccolti dallo studio di 134 popolazioni di mammiferi appartenenti a 101 specie diverse, allo scopo di quantificare le differenze tra i sessi nella durata della vita adulta e nel tasso di invecchiamento.

Grazie al loro lavoro, gli studiosi hanno potuto notare che le differenze di longevità tra sessi, così come i tassi di invecchiamento, sono molto variabili tra le specie, ma che, in media, la durata media della vita delle femmine è del 18,6% più lunga rispetto a quella dei maschi della loro stessa specie. Nell'uomo, tale differenza è del 7,8%.

Alcune ricerche precedenti, che si sono concentrate sulle popolazioni umane, hanno permesso di constatare che le donne, anche nelle comunità in cui i sessi condividono le stesse abitudini sociali, vivono più a lungo. Sembra quindi che, come riporta lo studio, il vantaggio femminile, per quanto riguarda la longevità, sia una delle “caratteristiche più robuste della biologia umana”.

Nel corso degli anni, molti scienziati hanno cercato di capire se tale differenza fosse presente anche in altre specie animali e da cosa potesse dipendere. Tuttavia, gli studi condotti fino a ora hanno sempre preso come riferimento principale gli umani, considerando solo una piccola selezione di altri mammiferi, o studiando solo animali che vivono in cattività, che hanno stili di vita e tassi di invecchiamento diversi da quelli degli animali che vivono liberi.

Le principali teorie avanzate per spiegare la differenza di mortalità tra sessi sono l'ipotesi sessuale eterogametica, secondo la quale i motivi per cui i maschi vivono di meno sono nascosti nel loro cromosoma, per cui un cromosoma omogametico XX ha un vantaggio, in questo senso, rispetto a quello eterogeneo XY; e l'ipotesi della maledizione della madre, secondo la quale l'eredità materna nel DNA mitocondriale contiene alcune mutazioni che negli individui di sesso maschile favoriscono, geneticamente, la mortalità.

Le due ipotesi in questione sono state finora analizzate in condizioni di laboratorio. Ciò che è mancato fino ad oggi, secondo Lemaître e coautori, è stato uno studio su larga scala che fornisse “una visione d'insieme completa delle differenze sessuali nella durata della vita tra i mammiferi allo stato brado”.

I meccanismi genetici individuati dai sostenitori delle due teorie non fanno inoltre distinzione tra due parametri diversi: la durata della vita e il tasso di invecchiamento, in che misura e quanto aumenta il rischio di mortalità, per un individuo di un certo sesso, man mano che la sua età avanza.

Lemaître e coautori hanno quindi indagato le differenze tra i sessi nei tassi di invecchiamento e nella durata della vita adulta, facendo coincidere l'inizio di questa fase con la prima riproduzione, ma i risultati suggeriscono che l'insorgenza dell'invecchiamento varia notevolmente tra i mammiferi e non inizia in modo coerente all'età della prima riproduzione.

Lo studio pubblicato su Pnas intende dimostrare che, in natura, la durata della vita delle femmine sia mediamente maggiore rispetto a quella dei maschi della stessa specie, ma che lo stesso non valga necessariamente per quanto riguarda i tassi di invecchiamento. La differenza tra i sessi del rischio di mortalità con l'aumentare dell'età risulta infatti essere molto variabile tra le varie specie.

Secondo gli studiosi, inoltre, le differenze genetiche tra sessi non influenzano in maniera sostanziale né la durata della vita adulta, né i tassi di invecchiamento. Al contrario, tali differenze sono dovute ai modi in cui i maschi e le femmine interagiscono con le condizioni ambientali e ai costi riproduttivi specifici del loro sesso.

Sembra, insomma, che gli individui di sesso femminile vivano più a lungo non perché invecchiano diversamente rispetto ai maschi, ma perché il loro rischio di mortalità in età adulta è inferiore.

Solitamente, negli studi empirici, viene riconosciuto un ruolo determinante alla selezione sessuale, ovvero al fatto che gli individui maschi devono avere a che fare con una maggiore competizione sessuale, crescendo di più e assumendo comportamenti che si rivelano più pericolosi, rischiando spesso la loro vita per conquistarsi le femmine. Possibile che siano queste le cause di una minore durata di vita adulta o di un tasso di invecchiamento più rapido rispetto alle femmine della loro stessa specie?

Il prossimo passo della ricerca sarà dunque confrontare i dati raccolti studiando gli animali selvatici con quelli provenienti dallo studio degli animali che vivono in cattività negli zoo, e che, oltre a non aver bisogno di competere per nutrirsi e accoppiarsi, non sono soggetti agli agenti patogeni presenti negli ambienti naturali e a condizioni climatiche dure.

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