SOCIETÀ

Moda: la transizione sostenibile e la buona informazione

Il rapporto redatto a conclusione del Venice Sustainable Fashion Forum, primo summit internazionale dedicato alla transizione sostenibile del settore moda - realizzato da The European House-Ambrosetti, Sistema Moda Italia, Camera Nazionale della Moda Italiana e Confindustria Venezia Rovigo -, presenta qualche percentuale su cui possiamo provare a riflettere: nel quadro di un settore in crescita (fast fashion, digitale e giovani spingono la crescita del mercato globale del 6% annuo), i modelli emergenti di economia circolare rappresentano oggi solo il 3,5% del mercato globale della moda (rivendita, noleggio, riparazione e remaking) e i consumatori, pur dimostrando interesse per l’argomento, non sono ancora orientati verso l’acquisto di prodotti sostenibili. L’Europa si è posta l'obiettivo di diventare il primo continente neutrale per emissioni di carbonio entro il 2050 e ha redatto una serie di obiettivi intermedi per il 2030. Il tema è imprescindibile e l'attenzione aumenta: nel novembre scorso è stato pubblicato il report 2022 Monitor for Circular Fashion, un progetto a cui prendono parte aziende leader del settore moda e attori della filiera, con il contributo scientifico del Sustainability Lab SDA Bocconi, che analizza le dinamiche evolutive del settore, presenta il lavoro di aziende virtuose e diffonde buone pratiche per favorire il cambiamento.

Ma a che punto siamo di questa transizione sostenibile? Quali sono i passi da compiere e quali invece le resistenze e i punti critici? Quale la preparazione del consumatore rispetto al tema? Ne abbiamo parlato con Maria Luisa Frisa, docente, storica e critica della moda, fashion curator. Frisa dirige il corso di laurea in Design della moda e Arti multimediali allo Iuav di Venezia, è presidente di MISA, Associazione italiana degli studi di moda, e durante questa intervista ha puntato l'attenzione su due questioni fondamentali: le condizioni di lavoro delle persone e l'importanza della buona informazione.

"Penso ci sia stato un approccio comunicativo sbagliato rispetto al tema. Si è dato molto valore a esperienze inutili come i tessuti fatti con bucce d'arancia o con le alghe, e ancora magliette in cotone biologico: queste piccole cose non hanno alcuna possibilità di applicazione e diffusione in un mercato così grande come quello della moda. Fare il tessuto con bucce d'arancia non risolve il problema. Sono esempi d’effetto dal punto di vista comunicativo, che però non rappresentano il cuore della questione”. E continua: “Morton ci dice che la parola sostenibilità non andrebbe più usata, ma noi qui la usiamo perché in questo momento ci serve per comprendere il quadro generale. Quando parliamo di sostenibilità siamo chiamati ad affrontare una serie di problemi: il primo riguarda le condizioni di lavoro delle persone. Quando una cosa costa troppo poco significa che qualcuno non è stato pagato o ha lavorato in condizioni che non si possono nemmeno commentare. Dunque, come lavorano le persone? Dobbiamo chiedercelo. E dobbiamo interrogarci affinché tutti i lavoratori siano messi nelle condizioni migliori e possano contare su un giusto compenso. Alcuni grandi brand si stanno impegnando in tal senso, anche se di questo importante argomento si parla ancora troppo poco".

La poca attenzione ai temi sociali emerge anche dal rapporto presentato al Venice Sustainable Fashion Forum: "Tra le aziende che si occupano di sostenibilità, il cambiamento climatico risulta quello che attira la maggior parte degli sforzi: circa il 60% ha fissato obiettivi quantitativi sulle emissioni di CO2; più del 50% delle aziende ha stabilito obiettivi quantitativi sull'uso delle materie prime. Per quanto riguarda i rifiuti, quasi il 100% delle aziende ne parla ma il 48% si limita a rendicontare le performance passate senza fissare alcun obiettivo. Infine, in tema di biodiversità, il 30% ha fissato obiettivi. Passando al tema sociale: il 22% e il 13% stabiliscono impegni qualitativi o quantitativi sugli aspetti legati al personale, mentre questi valori scendono rispettivamente al 19% e all'11% per la salute e la sicurezza".

A inquinare la giusta lettura del tema è anche la scarsa capacità, da parte del consumatore, di giudicare un capo acquistato, per esempio leggendo le informazioni riportate sull'etichetta. In questo senso, la sensibilità del consumatore sembra essere ancora scarsa. Si cerca il prezzo più basso senza considerare la qualità del prodotto, succede soprattutto tra i giovani ma non solo. "Pensiamo al cibo: siamo disposti a spendere un po' di più per quello che mangiamo, e leggiamo l'etichetta con attenzione", continua Maria Luisa Frisa, ma non siamo disposti a farlo per quello che indossiamo.

Per quanto riguarda poi l'impatto ambientale, devono essere fatte ulteriori riflessioni: "L'ecopelle è molto più inquinante della pelle vera e pochi sanno che buona parte della pelle usata per fare borse, scarpe, coperture di divani deriva da animali che vengono macellati per produrre cibo. Io sono vegetariana, ma la gente continuerà a mangiare carne: la pelle che si ricava è il prodotto di un ciclo, così si evita di buttarla via. Un altro esempio: le pellicce finte sono molto più invasive per l'ambiente perché non verranno mai distrutte. Quelle vere lo sono meno. Qui, poi, entra in gioco un'altra questione, quella animalista, che io condivido e infatti non porto pellicce, ma quello che voglio dire è che è inutile pensare di fare bene all'ambiente indossando ecopelle e pellicce finte, perché in realtà stiamo inquinando di più. Credo ci sia una mancanza di informazione dettagliata e consapevole rispetto alle questioni importanti".

Il rapporto del summit ci dice che “i cicli di produzione sono passati dal durare 9 mesi, prima degli anni Novanta, a 4 settimane, alla fine degli anni Novanta, fino a 3 giorni nel 2020, grazie anche a modelli di business fortemente digitalizzati, integrati verticalmente e capaci di sfruttare le potenzialità dei big data. Nel frattempo, c’è stata una forte riduzione dei prezzi: in Gran Bretagna dal 1995 al 2014 il prezzo degli abiti si è ridotto del 53% a fronte di un incremento dei beni di consumo del 49%”.

E sulla quantità di capi prodotti, Frisa aggiunge e precisa: "Molte aziende di alto livello si stanno impegnando per evitare la sovrapproduzione. In questo senso si sta facendo molto per non avere rimanenze inquinanti, che andrebbero invece ad aggiungere altro materiale per le discariche del mondo. Anche in questo caso sono questioni che non fanno comunicazione, perché non aggiungono valore: ecco, a mio avviso, il lavoro deve partire proprio dal modo di comunicare. Un altro esempio riguarda la concia dei pellami e il grande lavoro che si sta facendo per escludere tutte le sostanze altamente inquinanti: oggi, in Italia, siamo a un livello di rispetto dell'ambiente che è tra i più alti del mondo. Tutte queste scelte e azioni sono in atto e dovrebbero essere divulgate nel modo giusto, affinché le persone possano iniziare a sentirsi sempre più motivate e attuare acquisti consapevoli". Di certificazioni di sostenibilità e comunicazione di intenzioni e risultati si sta parlando in questi giorni anche a Pitti immagine uomo.

"Il problema va affrontato alla base. Sarebbe forse il momento di fare una mappatura di chi lavora tenendo presente una serie di valori legati a questi temi e inserendo nell'etichetta informazioni sempre più dettagliate". 

Il consumatore si dimostra ancora poco preparato e attento: dunque quali passi concreti si dovrebbe compiere per attuare scelte più consapevoli e quindi sostenibili? "Dico subito una cosa: a tutti i livelli, noi dovremmo abituarci a comprare meno, e lo dice una persona che ama la moda e i vestiti. Non dobbiamo smettere di acquistare ma iniziare ad avere maggiore attenzione, questo sì. Dobbiamo smettere di pensare a compartimenti stagni, perché noi viviamo in un mondo dove tutto è connesso: per questo è necessario trovare la giusta sintonia con l'ambiente e avere, quindi, delle accortezze. Se impariamo a spegnere la luce quando e dove non serve, credo sia altrettanto importante imparare a consumare il giusto anche nella moda. Non significa privarsi delle cose, ma questa sfrenata corsa alla vendita e all'acquisto è inevitabile che alla fine abbia delle ripercussioni sull'equilibrio del Pianeta. Sottolineo, poi, l'importanza dell'informazione: informarsi è sempre molto utile, sapere quello che si compra è fondamentale perché, l'ho detto prima e lo ribadisco, se spendo poco compro molto, anzi troppo. Non è una cosa buona. Io non sono una di quelle persone che veste usato o che punta tutto sul recycling e simili: alla fine queste azioni hanno una bassa incidenza rispetto alla questione, dobbiamo invece pensare al macro-tema: il problema non riguarda solo la moda, ma la Terra. Bisogna, infine, invitare le aziende a essere più trasparenti nel loro modo di lavorare, per prima cosa proponendo etichette più dettagliate per guidare il consumatore verso un acquisto consapevole". 

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