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In Salute. Ictus, Silvestrini: “Serve assistenza omogenea sul territorio nazionale”

Ridurre del 10% il numero di persone colpite da ictus cerebrali in Europa; trattare il 90% di tutti i pazienti all’interno di stroke unit specializzate; disporre di piani nazionali; attuare interventi di salute pubblica che promuovano uno stile di vita sano, riducendo i fattori di rischio. Sono questi gli obiettivi fissati al 2030 dallo Stroke action Plan for Europe (Sap-E), voluto dalla European Stroke Organisation e dalla Stroke Alliance for Europe. Ad oggi 14 Paesi si sono formalmente impegnati a migliorare la prevenzione, il trattamento e la cura dell’ictus, firmando la Dichiarazione d’azione. In Italia il Piano d’azione contro l’ictus è stato redatto e concluso dall’Italian Stroke Association (Isa-Aii) in questi mesi e presentato alle istituzioni. 

Le ragioni alla base di queste azioni risultano più evidenti se si considera che, a livello mondiale, l’ictus nel 2021 è risultato la terza causa di morte e la quarta causa di disabilità. Con una prevalenza di 93,8 milioni di casi, si calcola che abbia causato 7,25 milioni di decessi. Nel nostro Paese la situazione non è diversa: l’ictus costituisce addirittura la seconda causa di morte dopo le malattie ischemiche del cuore, è responsabile del 9-10% di tutti i decessi ed è la prima causa di invalidità. 

“Lo Stroke Action Plan for Italy – spiega Mauro Silvestrini, presidente di Isa-Aii e professore di neurologia all’università Politecnica delle Marche – rispecchia ciò che è già in atto in diversi Paesi europei. Ora dal ministero della Salute, a cui l’abbiamo sottoposto, attendiamo un avallo che dia più forza alle nostre azioni. Il documento serve a indicare le strategie più corrette per la presa in carico del paziente colpito da ictus, fornendo direttive uniformi su tutto il territorio nazionale. La salute è un diritto universale e non devono esistere differenze di trattamento sulla base del luogo in cui si vive”. 

Argomenta Silvestrini: “A livello regionale stiamo già lavorando con buoni risultati, e il numero di stroke unit è aumentato: nel nostro Paese ne sono attive oltre 200, ma la distribuzione non è omogenea sul territorio. La maggior parte delle strutture, circa il 50%, sono concentrate al nord, il 27-28% al centro e il 20% al sud. È chiaro che questo dipende in parte dalla numerosità dei cittadini, ma soprattutto da un sistema sanitario che avanza a velocità diverse. E noi riteniamo che ciò non debba accadere, ma essere corretto”.

Intervista a Mauro Silvestrini, presidente dell'Associazione italiana ictus. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Massimo Pistore

Fondamentale agire con tempestività ai primi sintomi

L’ictus è un danno cerebrale provocato dall'interruzione dell’afflusso di sangue al cervello a causa dell'ostruzione o della rottura di un vaso sanguigno cerebrale: a seconda dei casi si parla rispettivamente di ictus ischemico, il più frequente, o emorragico. Se si escludono i casi più gravi, che causano l’improvvisa perdita dell’uso di un braccio o di una gamba e mettono in allerta il paziente, l’ictus può causare sintomi che al loro insorgere vengono poco considerati: meno del 30% di chi è colpito è in grado di riconoscerli precocemente.

“L'ictus inizialmente può manifestarsi in forma lieve – sottolinea Silvestrini –, con un'evoluzione che però potrebbe essere anche drammatica e produrre danni, quando il paziente decide di recarsi in ospedale. Per questo motivo, un impaccio della mano o una difficoltà nello scandire le parole, o nel comprendere quello che ci viene detto, un'improvvisa perdita di acuità visiva, specie in una parte del campo visivo, ma anche una perdita di sensibilità in una parte del corpo, di solito metà del corpo, devono costituire dei campanelli d’allarme, esattamente come lo è un dolore al petto o alla spalla in caso di infarto”. Anche segni non particolarmente gravi, dunque, dovrebbero indurre immediatamente a chiamare i soccorsi.

L’efficacia della terapia dipende dalla precocità dell’intervento

“L'efficacia della terapia, sia nel caso di un’ischemia che di un'emorragia, dipende in maniera preponderante dalla precocità con cui si interviene. L'altro aspetto fondamentale è che l'ictus deve necessariamente essere trattato in un ospedale, dove bisogna recarsi il prima possibile”. Il paziente deve essere trasferito in una struttura dotata di unità ictus, in cui sono disponibili le tecnologie e l’expertise con cui gestire la situazione e minimizzare i rischi di morte o disabilità importanti. 

I primi accertamenti sono di tipo neuroradiologico. “Ci stiamo sempre più indirizzando verso l’esecuzione di TAC che comprendono anche lo studio dei vasi sanguigni, perché questo ha delle ricadute terapeutiche. Se si tratta di ischemia bisogna iniziare immediatamente un trattamento detto fibrinolisi, che consiste nell’introduzione per via venosa di un farmaco in grado di sciogliere l'embolo o il coagulo che sta occludendo il vaso sanguigno, e a volte è necessario eseguire anche una trombectomia che consiste nella rimozione meccanica del materiale ostruttivo”. 

Oggi esistono possibilità terapeutiche anche per i pazienti colpiti da ictus emorragici, per i quali fino a qualche tempo fa non c’erano trattamenti specifici. “Intervenire precocemente normalizzando i parametri vitali, la pressione, la glicemia, usando farmaci specifici o anche un'opzione chirurgica su pazienti selezionati consente una netta riduzione della mortalità, e soprattutto una maggior prospettiva di un recupero accettabile dal deficit che si è manifestato”. 

Criticità nella gestione post-ictus: un aiuto dalla telemedicina

Secondo Mauro Silvestrini un punto debole della catena di gestione del paziente è il recupero dopo l’ictus. Se la fase acuta dura poco tempo e si esaurisce in pochi giorni, dato che dopo una settimana il paziente teoricamente dovrebbe essere stabilizzato, la gestione della fase successiva pone invece dei problemi in termini di strutture ricettive capaci di offrire una riabilitazione efficace. “Considerato l’elevato numero di pazienti che ormai sopravvive alla fase acuta è necessario sviluppare maggiormente una catena di assistenza che gestisca le necessità del paziente, a volte per periodi molto lunghi. Esistono per esempio dei centri per il trattamento con tossina botulinica, che è molto efficace nella spasticità, ma si tratta di strutture che devono essere implementate. E soprattutto bisogna garantire a tutti i pazienti una valutazione precoce e una presa in carico adeguata nel caso delle complicanze più temute come la spasticità di uno o entrambi gli arti interessati dalla perdita di forza”. 

Nelle zone in cui non esistono unità ictus adeguate, la telemedicina può fornire un valido aiuto e sopperire almeno in parte alla carenza di strutture. Silvestrini spiega che ci sono già esperienze di gestione del paziente a distanza sia in fase acuta che nella fase di riabilitazione. 

L'intelligenza artificiale poi – sottolinea Silvestrini – è fondamentale nella gestione iniziale di chi viene colpito da ictus perché ci consente di capire, attraverso per esempio l'elaborazione delle immagini di TAC o risonanza, come intervenire su pazienti che magari fino a qualche tempo fa venivano esclusi dal trattamento, perché arrivavano troppo tardi in pronto soccorso. Oggi con l'elaborazione intelligente delle immagini siamo in grado di trattare anche chi non arriva nelle prime ore dall’insorgenza dei sintomi, perché riusciamo comunque a capire se c'è ancora una quota di tessuto cerebrale che potrebbe essere salvata da un intervento di tipo fibrinolitico di rimozione meccanica del trombo per esempio”.

L’ictus si può prevenire

Stando ai dati ministeriali, il 90% degli ictus si potrebbe prevenire agendo sui fattori di rischio modificabili. “Esistono fattori di rischio non modificabili come l'età: l’ictus può colpire anche soggetti giovani, ma generalmente la probabilità di ammalarsi riguarda soprattutto persone anziane, e il rischio aumenta in maniera esponenziale dopo i 65-70 anni. Però esiste una larga fascia di fattori di rischio modificabili che, se affrontati in maniera corretta, possono ridurre notevolmente l'impatto della malattia”. 

Silvestrini spiega che l'ipertensione arteriosa, i disturbi metabolici come lo scarso controllo della glicemia fino ad arrivare al diabete, le dislipidemie, il fumo di sigaretta, l'uso di sostanze d'abuso, l'abuso alcolico sono tutti fattori di rischio correggibili, che possono essere gestiti o minimizzati non solo con i farmaci ma anche con un corretto stile di vita. 

La sedentarietà, il sovrappeso e l'obesità sicuramente sono fattori di rischio che incidono anche sugli altri: una persona obesa è più suscettibile all'ipercolesterolemia, al disturbo del controllo della glicemia, è più spesso ipertesa. Una corretta alimentazione, quindi, uno stile di vita che preveda un po' di attività fisica, modulata in relazione all'età del soggetto e alle sue condizioni generali, sono interventi efficaci che consentirebbero di ridurre notevolmente il rischio di ictus individuale”. 

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