SOCIETÀ

Muri e frontiere

Stanno uscendo molte riflessioni scientifiche sulle frontiere e sui muri alle frontiere. In parallelo a pensieri e paure, convinzioni ed emozioni diffuse che vi si associano. C’è una contrapposizione politica e culturale forte intorno a loro, globale, ovunque. C’è chi ne condivide l’esistenza, chi ne sottolinea i vantaggi, chi li considera comunque inevitabili, c’è chi ne subisce l’esistenza, chi ne evidenzia gli svantaggi, chi lotta comunque per ridimensionarne il peso.

La bibliografia è sterminata, anche recente. Si organizzano festival e convegni sul tema. Nell’ultimo anno sono stati tradotti in italiano o riediti alcuni interessanti aggiornati volumi che possono aiutarci a capire storia e geografia. Faccio qui riferimento critico ai seguenti testi: Bruno Tertrais e Delphine Papin, Atlante delle frontiere. Muri, conflitti, migrazioni, Add 2018 (ed. orig. 2016), traduzione e postfazione di Marco Aime; Régis Debray, Elogio delle frontiere, Add 2012 (orig. 2010), traduzione e postfazione di Gian Luca Favetto, ; Tim Marshall, I muri che dividono il mondo, Garzanti 2018 (orig. 2018 Divided: Why we’re living in an age of walls), traduzione di Roberto Merlini; Le 10 mappe che spiegano il mondo, Garzanti 2017 (orig. 2015 Prisoners of Geography), trad. di Roberto Merlini. Da molto tempo, almeno dal Neolitico inoltrato, un limite geografico – linea o spazio – riflette le relazioni tra due gruppi umani, uno di qua, uno (almeno uno) di là, noi e gli altri, divisi e vicini. Nel corso della storia i gruppi umani geograficamente distribuiti sono divenuti popoli e civiltà, infine (finora) Stati, separati da confini o frontiere (quasi sinonimi).

Oggi tutto il mondo umano è diviso per Stati (193). A creare le frontiere terrestri fra Stati sono state guerre (in più di cento casi), annessioni e secessioni. Soltanto una cinquantina sono i paesi nati da una secessione pacifica (indipendenza), divisione consensuale o arbitrato internazionale o comunque da relazioni di buon vicinato. In oltre la metà dei casi sono state scelte frontiere un poco anche “naturali” (montagne, supporti idrografici o orografici), le altre sono tutte “artificiali”, il 25% addirittura come linee dritte (a prescindere), mentre talvolta seguono meridiani o parallele.

Più “fluido” è il discorso sulle frontiere marittime: per gran parte del suo tempo la specie umana ha solo camminato, tardi ha capito come trasferirsi più rapidamente col supporto di ruote o animali; da qualche decina di migliaia di anni ha pure navigato, prima su un Oceano (Pacifico) poi sugli altri oceani, il mare è comunque più complesso da attraversare e impossibile da dividere praticamente; infine è stata capace anche di volare e l’aria è ancor più condivisa e indivisibile. Da un certo momento in poi la nostra specie ha delimitato i luoghi, ha concepito (tracciato) una convenzione mentale, con molte funzioni pratiche e sociali: verso l’interno difesa e amministrazione del territorio, contabilità e riscossione delle imposte, verso l’esterno condizionamento o filtro per uscite e entrate, anti-immigrazione. La fuga andava evitata, quanto meno censita. I confini potevano essere più o meno liquidi (totalmente quelli marini), condivisi (quasi mai all’inizio), geograficamente visibili (montagne, fiumi, valli, laghi, coste, campi coltivati, mura), culturalmente rigidi (per identità linguistiche, fiscali, amministrative, religiose).

Eterna questione: è il confine ad aver creare le diversità o, al contrario, una o più di queste ultime a far nascere un confine? Comunque sia (nel tempo e nello spazio) i confini sono stati individuati anche per essere superati, la storia dell’umanità agricola è una storia di residenze e trasferimenti, di lavoro schiavo mobile. All’inizio il confine prendeva spunto da un aspetto naturale oppure dal limite della coltivazione o (più arduo) dell’allevamento. Da sempre l’ambiente fisico e il contesto geografico hanno condizionato scelte e sentimenti umani, le dinamiche storiche individuali e collettive. Fiumi e montagne, deserti e mari, ciclo delle acque e clima hanno influenzato vicenda politica e sviluppo sociale dei popoli, guerre e poteri del passato e del presente.

Tutto ciò è noto come geopolitica, il rapporto tra fattori geografici e relazioni internazionali. Eppure spesso i confini degli Stati non sono stati tracciati tenendone conto, sia per la violenza esterna di singoli invasori “a prescindere”, sia per l’artificiosità di linee imposte da potenze coloniali oltretutto “ignoranti”. I confini separano molte unità amministrative interne agli Stati, le frontiere separano gli Stati fra loro e sono presidiate militarmente (o difensivamente per i rari stati senza Esercito o Marina). Solo gli ecosistemi umani terrestri hanno traccia artificiale fissa di frontiere. Riconoscere un luogo come quello della propria comunità, delimitarlo, nominarlo hanno dato un impulso alla comunicazione linguistica della comunità, all’articolazione di un proprio linguaggio complesso. Lingue e geni hanno cominciato a risiedere insieme e a migrare insieme, sempre come combinazione di incroci e isolamenti da antenati comuni.

Ancora una volta sono le migrazioni, sia di gruppi più ampi che continue e costanti, a determinare una pluralità di adattamenti reciproci: con le armi la forza può imporre la propria lingua (e il nome dei luoghi “propri” e altrui) a chi si invade o si fa spostare forzatamente, oppure si possono integrare via via stranieri, oppure si impastano altre lingue e dialetti, oppure si può convivere a poca distanza con lingue differenti, oppure si può migrare un poco per mescolarsi il meno possibile, oppure e comunque lingue (e geni) si sono mescolati, ibridati, contaminati. E una qualche mescolanza vale, pur loro malgrado, per i muri fisici e non fisici (religiosi, psicologici, digitali) a causa del permanente carattere forzato di molti confini (a seguito del moderno colonialismo europeo) e della penetrabilità di ogni barriera.

Fra frontiere naturali e artificiali non c’è significativa differenza di complessità, arbitrarietà, ingiustizia, contestazioni; comunque all’interno non rimane praticamente mai solo una comunità morfologicamente riconoscibile, solo un gruppo linguistico, solo una religione (esistono inevitabilmente appunto meticciati genetici e culturali). Nel complesso, le frontiere terrestri esistenti sono 323 su circa 250.000 km, 100 in Europa per 37.000 km. Il passaggio non è proibito (anzi, l’articolo 13 della Dichiarazione Universale dice che andrebbe considerato “libero” per ogni individuo), in che modo il confine superabile è e deve essere regolamentato da entrambi gli Stati, pure in modo differente, senza obbligatoria reciprocità. Esistono ovviamente altre efficaci frontiere meno visibili: culturali, religiose, etniche, linguistiche, quasi mai coincidenti con quelle internazionali. Ancora: è il confine a creare la diversità o, al contrario, è quest’ultima a farlo nascere? Comunque sia (nel tempo e nello spazio), le frontiere sono fatte per essere superate, la storia dell’umanità moderna è una storia di commerci e contrabbandi, di offerta e domanda di lavoro mobile.

I muri servono a impedire il passaggio delle frontiere fra gli Stati, da sempre, a sottoporre a un potere interno sia la fuga dall’interno che l’ingresso dall’esterno, trasformano la frontiera in dogana nei pochi interstizi; a seconda delle definizioni e dei metodi di calcolo i muri rappresentano fra il 3% e il 18% delle frontiere; molti altri se ne stanno edificando. Oggi dappertutto vediamo muri in costruzione lungo i confini, ci sentiamo più divisi che mai. Almeno 65 stati (su 193) hanno costruito barriere per meglio separarsi (praticamente e simbolicamente) dagli stati limitrofi, metà di quelle erette dal 1945 sono state create dopo il 2000. Vale soprattutto per l’Eurasia, uno sterminato territorio non isolato dal mare, ma in parte anche per gli altri continenti. Lo scopo principale è fermare le (spesso presunte) ondate immigratorie; non l’unico, gli altri in parte variano da paese a paese.

Resta in sospeso il rapporto fra frontiere umane ed ecosistemi (anche) umani: più o meno la medesima aria si respira da entrambe le parti; gli uccelli e le specie si spostano spesso oltre, sole o accompagnandoci; le emissioni da una parte influiscono anche altrove; i tre quarti delle migrazioni (anche forzate) sono interne, non internazionali. Gli ecosistemi sono variabili indipendenti e permanenti. Lo stesso inevitabile antropocentrismo ha qualche limite! Fin dall’inizio frontiere e muri hanno avuto un percorso intrecciato. La costruzione umana di mura artificiali inizia nel corso del Neolitico, dopo la prima sedentarietà organizzata in campi coltivati, con le prime città (murate) e i primi proto-stati. Tante mura hanno circoscritto città e popoli e acceso il nostro collettivo immaginario storico (Uruk, Troia, Gerico, Babilonia, Costantinopoli, imperi romano inca cinese, marche e borghi del medioevo europeo). La Grande Muraglia misurava quasi 22.000 chilometri e serviva a demarcare i campi dalla steppa, l’agricoltura dal nomadismo, gli Han dai non-Han, la civiltà (cinese) dalla barbarie (altrui), unitariamente definita dall’esterno e dall’interno dei confini, pur essendo solo parzialmente efficace come difesa militare.

Ben ricordando i pochi muri abbattuti (Berlino a esempio), non è facile esaminare proprio tutte le regioni oggi divise da barriere fisiche, molte sì. Si può partire dal muro sui 3.200 chilometri di frontiera fra Usa e Messico, quello che il presidente Trump vorrebbe presto completare. Oppure dai muri fra Israele, gli altri Stati vicini e il non-Stato della Palestina: Egitto (245 chilometri) e Siria, Cisgiordania (quasi 710) e Gaza (60). Per allargare poi lo sguardo all’intero Medio Oriente (muri fra tutti, in particolare ora costruiti da Giordania, Arabia Saudita, Kuwait, Turchia) e alle città piene di militari, dove le recenti guerre e la diffusa presenza di terroristi hanno fatto esportare il modello della “zona verde” di Baghdad recintata nel 2003. E ancora al subcontinente indiano, all’Africa, all’Europa, al Regno Unito, per concludere sulla necessità di costruire anche ponti e migrazioni sostenibili.

Tanto più che gli Stati non sono l’unico modo di distinguere noi dagli altri: le federazioni sportive “nazionali” sono molte più di 193; le unioni continentali sono parte del diritto internazionale; vi sono ancora comunità nomadi fuori da ordinamenti statuali e comunità residenziali che non accettano l’autorità dello Stato entro i cui confini vivono; i titoli lavorativi e accademici hanno valore sempre più globale; esistono reti, social e non social, alle quali molti apparteniamo senza avere il medesimo passaporto; e, soprattutto, un singolo passaporto ci dà possibilità di trasferirci o immigrare altrove in aree molto diverse a seconda del paese da cui emigriamo.

La geografia e la storia dello sviluppo delle nazioni risultano cruciali per capire il mondo come è oggi e come potrebbe configurarsi in futuro. Occorre ragionare di più e con maggior competenza sul passato e sul possibile futuro delle potenze cinese (le zone cuscinetto e le colonizzazioni Han, le bistrattate masse nelle zone rurali, il sistema hukou della registrazione familiare, l’assenza di opposizione, la censura sui social media) e americana (l’espansione dei confini, i trascorsi schiavisti, il persistente razzismo, il peso crescente dello spagnolo, paradossi e ipocrisie nelle immigrazioni o importazioni illegali, i globalisti urbani e i nazionalisti non-urbani).

Occorre riflettere meglio sulle tante diverse migrazioni di massa in corso, anche quelle indotte dagli Stati per colonizzare territori irrequieti, quelle interne e meno visibili, quelle diasporiche di singole etnie, quelle dei rifugiati climatici. La Russia, il paese più grande (oltre 17 milioni di chilometri quadrati, 11 fusi orari) ha una profondità strategica, senza montagne a occidente (una pianura dalla Francia agli Urali ha reso possibili svariate invasioni) e senza porti su acque temperate (la mancanza di accesso alle rotte commerciali più importanti ha imposto costi e compromessi), questi elementi geografici hanno inevitabilmente condizionato politiche e ideologie di chi ha guidato il paese, zarista o comunista o neocapitalista.

Dall’altra parte, il Mar Glaciale Artico (14 milioni di chilometri quadrati) è scosso da cambiamenti climatici che lo renderanno crocevia migratorio per nuove rotte e patrimonio energetico pericolosamente sfruttabile, forse in modo più condiviso. La geografia è sempre stata una “prigione” da cui gruppi umani e leader istituzionali hanno spesso faticato a evadere. Tutti i problemi e i conflitti quotidiani non ne prescindono.

Per ora è inutile illudersi troppo sui diritti umani e sui valori occidentali. C’è però almeno un incipiente problema che prescinde da frontiere e muri e rischia di travolgerli: i confini planetari della superpredazione umana sulla Terra. Altre volte gli umani hanno migrato in gruppo da un singolo ecosistema proprio perché non reggeva più il carico umano. E oggi certo l’impronta antropica globale è allarmante, ha raggiunto qualche confine planetario, un limite di sostenibilità per il finito ecosistema globale. Forse non sarà solo la sovrappopolazione a rendere invivibile la Terra.

L’emergenza più grave è quella dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale, in in-certa misura ormai irreversibile. Non è la sola a mettere a repentaglio la resilienza dei singoli ecosistemi. Una parte cospicua e autorevole del mondo scientifico indica ormai, con quantità e percentuali massime, oltre alla concentrazione di anidride carbonica nell’atmosfera (la più alta da almeno 800 mila anni) e alla perdita di biodiversità (evidenziata dalla sesta estinzione di massa dopo 65 milioni di anni dalla precedente), almeno altri sette confini planetari che non si debbono superare: l’acidificazione degli oceani; la riduzione della fascia di ozono nella stratosfera; la modificazione dei due cicli biogeochimici dell’azoto e del fosforo; la ridotta disponibilità di acqua dolce rinnovabile e non rinnovabile; il degrado del suolo; la diffusione di aerosol atmosferici e l’inquinamento di prodotti chimici.

Sono confini entro i quali interagisce il fenomeno migratorio, spesso associabile anche ai cambiamenti climatici, alla perdita di biodiversità, alla siccità, agli inquinamenti. Frontiere e muri non hanno impedito emissioni e inquinamenti globali, non potranno impedire ingenti migrazioni di specie e di umani.

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