CULTURA

Le notti della peste: il compito del romanziere

“L’arte del romanzo si basa sulla capacità di raccontare le nostre storie come se appartenessero ad altri, e di raccontare le storie degli altri come se fossero le nostre”.

Questo si legge nelle prime pagine del nuovo romanzo di Orhan Pamuk, Premio Nobel per la Letteratura nel 2006, nella prefazione “fittizia” al romanzo. Le notti della peste si tratta infatti di uno di quei casi di metaletteratura in cui quello che il lettore ha tra le mani appare come il libro scritto da qualcuno che non è direttamente l’autore, ma in questo caso dalla studiosa Mina di Mingher, in cui lei, nella forma del romanzo, ricostruisce quanto è accaduto nell’omonima isola, a partire dal 1901 attraverso le centotredici lettere inviate dalla principessa Pakize di Instabul alla sorella. Non siamo nuovi a questo espediente che ha precedenti illustri, e che Pamuk omaggia in esergo con la frase di Manzoni: “Nessuno scrittore d’epoca posteriore s’è proposto d’esaminare e di confrontare quelle memorie, per ritrarne una serie concatenata degli avvenimenti, una storia di quella peste” e con una di Tolstoj.

E sembra davvero uno di quei casi, quello di Pamuk con questa sua nuova fatica, in cui la sensibilità del romanziere coglie, in anticipo rispetto ai tempi, uno Zeitgeist. Il perché è presto detto: Le notti della peste racconta cos’è successo nell’isola di Mingher sperduta nel Mediterraneo quando viene colpita da una grande pandemia. E Pamuk scrive questo libro prima che il covid irrompa nelle nostre vite.

Quando all’Università di Padova, in occasione della sua Nobel Lecture Telmo Pievani gli chiedeva ragione della scelta, e del vincolo che s’era posto nel far questo (raccontare la storia di una ben precisa isola, cioè, ancorché inventata) Pamuk non aveva dubbi.

Raccontava di aver avuto con il romanzo Neve una serie di detrattori che lo accusavano di non avere ricostruito bene i fatti storici del luogo in cui era ambientata la storia, una città della parte nordorientale della Turchia, quando l’intento era invece per lui quello di raccontare l’ascesa dell’Islam in quelle zone, e perciò si è indirizzato, nel romanzo nuovo, verso un luogo immaginario che potesse unire letteratura e geografia.

Un luogo, come spesso accade ai romanzieri, che si materializza sulla carta (nella fattispecie proprio disegnato in forma di mappa) attraverso un processo ricorsivo di sogno, ricerca e scrittura e che è quindi immaginario ma fatto di dettagli reali. L’ha costruita passo passo, la sua isola, Pamuk: contando i passi, le distanze e riportandoli nel disegno (una mappa apre il libro, fisicamente) che è quindi un’isola ideale, ha spiegato, ma non tanto utopica, alla Thomas Moore, quanto piuttosto distopica.

Lì, nel romanzo, scoppia un’epidemia di peste bubbonica e per varie ragioni lo spazio viene chiuso e confinato ed è pervaso da un sentimento di isolamento. Ci è tutto molto familiare, eppure Pamuk spiega, da accorto romanziere, che i tempi della vita sulla terra sono troppo veloci perché lo scrittore possa starci dietro ed ecco perché questo suo libro deriva da un’intuizione, non dalla rincorsa del presente. L’idea gli era venuta inizialmente parecchi anni fa seguendo il desiderio di raccontare la peste che aveva colpito l’Impero ottomano e per dare la sua versione di come gli Ottomani, in un certo qual modo, fossero sempre stati visti come fatalisti a questo riguardo, quasi che tutto ciò che accadeva fosse mandato da Dio e questo bastasse loro per lasciare che accadesse. Ripresa l’idea in mano molto più tardi, scrivere della peste diventava anche un modo allegorico per riferirsi al governo turco di Erdogan. Aveva esempi di grandi davanti agli occhi: Camus, Defoe e Manzoni, ma, diversamente da loro, che raccontavano della peste senza esserci mai dentro fino in fondo, quello che è accaduto a lui è stato di avere la possibilità di confrontarsi, nell'esperienza reale, con quel senso di contenimento e la necessità di far fronte al morbo di cui avrebbe comunque dovuto raccontare nel libro.

Nulla di profetico, secondo Pamuk, perché si tratta di un evento statisticamente possibile. E in quanto narratore, poi, quello che ha messo sulle pagine è un romanzo, che per quanto allegorico, racconta una storia (e nella fattispecie, qui, a muovere i fatti è la morte misteriosa del più grande infettivologo del Paese). I romanzieri ben hanno in mente quale sia il compito cui sono chiamati e Pamuk lo fa dire nella prefazione alla studiosa che, nella finzione ha scritto il romanzo.

“Così, ogni volta che cominciavo a sentirmi come la figlia di un sultano, come una principessa, sapevo nel profondo che stavo facendo quello che un romanziere dovrebbe fare. Più difficile è stato entrare in sintonia con gli uomini in posizioni di potere, con i pascià e i medici che decidevano le misure di quarantena e sovrintendevano alla lotta contro la peste.

Se un romanzo deve superare, nello spirito e nella forma, l’orizzonte del singolo individuo, e tendere a un tipo di storia che abbracci le vite di tutti, è preferibile che sia narrato da molti punti di vista diversi. D’altra parte, sono d’accordo con il più femminile dei romanzieri maschi, il grande Henry James, secondo cui, perché. un romanzo sia veramente convincente, ogni particolare e ogni evento devono disporsi intorno alla prospettiva di un singolo personaggio.

Tuttavia, poiché allo stesso tempo ho scritto un libro di storia, ho spesso derogato alla regola del “punto di vista unico” e l’ho talvolta infranta. Ho interrotto scene toccanti per fornire al lettore fatti e cifre, oppure la storia delle istituzioni governative. Subito dopo aver descritto i sentimenti più intimi di un personaggio, sono passata rapidamente ai pensieri di un altro del tutto diverso, anche quando non c’era alcuna possibilità che il primo dei due ne fosse a conoscenza”.

Il narratore deve cioè rendere credibile ogni suo personaggio: non può schierarsi, e proprio per questo, ma paradossalmente al contrario, racconta Pamuk, sempre nel suo precedente Neve è stato accusato di aver preso le parti del personaggio islamista, solo perché ne aveva scandagliato le ragioni. Ma, spiega l’autore, al romanziere tocca descrivere anche l’irrazionale e renderlo più che accessibile al lettore: credibile. La sua missione è confondere chi legge (alcuni la chiamano “suspension of disbelief”) e portarlo a un livello di indagine il più profonda possibile.

Al romanziere, dice, è permesso fare qualsiasi tipo di ipotesi sull’umanità, ma al contempo, lo scrittore deve cercare il senso di colpa dentro se stesso e indagare il mondo con la scrittura.

E scusate se è poco.

L’arte del romanzo si basa sulla capacità di raccontare le nostre storie come se appartenessero ad altri, e di raccontare le storie degli altri come se fossero le nostre Orhan Pamuk

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