SCIENZA E RICERCA

Perché i microbi nel permafrost che si scioglie potrebbero peggiorare la crisi climatica

Il permafrost è, come suggerisce il nome, un terreno perennemente gelato, composto da sedimenti misti a ghiaccio nei quali sono intrappolati residui organici non decomposti. Il permafrost è generalmente profondo dai 300 ai 600 metri, ma in alcune regioni della Siberia raggiunge anche i 1500 metri di profondità. In superficie vi è un sottile strato attivo, solitamente profondo da poche decine di centimetri a qualche metro, sensibile alle variazioni stagionali di temperature, che dunque tende a sciogliersi in estate.

Il permafrost, presente soprattutto nell’Artico, ricopre, secondo alcuni calcoli, circa il 20% delle terre emerse. Da anni, ormai, è un osservato speciale: a causa dell’aumento delle temperature medie globali – fenomeno particolarmente evidente nelle regioni artiche – il permafrost si sta sciogliendo a una velocità molto più elevata di quella prevista dagli scienziati. Il rischio, dunque, è che vengano rilasciate in atmosfera grandi quantità di gas climalteranti, soprattutto anidride carbonica e metano, a lungo intrappolati nel terreno gelato dell’Artico.

Un articolo di Nature fa il punto sulle più recenti scoperte riguardanti l’ecologia delle regioni artiche ricoperte dal permafrost: per avanzare previsioni attendibili circa l’impatto del disgelo del permafrost sul clima globale, è infatti necessario comprendere cosa accade a livello microscopico. I residui biologici e le numerose forme di vita custodite per lungo tempo nel terreno gelato si stanno modificando in risposta ai cambiamenti ambientali: mappare le specie di microrganismi presenti nelle torbiere e nei laghi artici in via di disgelo è perciò essenziale per capire come esse trasformeranno questi ambienti, che per millenni sono stati i più grandi pozzi terrestri di carbonio del pianeta, arrivando a contenere, oggi, circa 1.600 miliardi di tonnellate di carbonio (per avere un’idea di cosa questa cifra significhi, si pensi che, dal 1800 ad oggi, tutte le attività umane hanno immesso in atmosfera circa 2.400 miliardi di CO2).

Le comunità microbiche che abitano il permafrost sono infatti molto estese, come dimostrano i risultati di diversi progetti di ricerca internazionale: alcuni di essi, ad esempio, si stanno occupando di portare a termine una mappatura genetica il più possibile dettagliata delle migliaia di specie di batteri, virus e archaea presenti nel suolo artico in via di disgelo, per comprendere in dettaglio le strategie metaboliche da essi adottate e gli adattamenti che stanno mettendo in atto a fronte del repentino cambiamento ambientale. La prima scoperta importante in tal senso è del 2014, quando i ricercatori si sono resi conto di come le diverse comunità microbiche rilasciassero metano a ritmi diversi a seconda delle caratteristiche (come, ad esempio il grado di disgelo del permafrost) dell’ambiente in cui erano immersi. «Nelle torbiere fangose parzialmente scongelate, per esempio, la maggior parte dei microbi presenti produce metano attraverso un processo chiamato metanogenesi idrogenotrofica, in cui sono consumati anidride carbonica e idrogeno», spiega Virginia Rich, microbiologa della Ohio State University, una dei componenti del gruppo di ricerca del progetto IsoGenie. «Ma nelle torbiere completamente scongelate la comunità microbica diventa più complessa, e arrivano microbi che producono metano attraverso un processo chiamato metanogenesi acetoclastica, in cui per produrre metano sono usati acetato e anidride carbonica». Si tratta di una differenza importante, perché questi due processi reagiscono in maniera differente alle variazioni di condizioni ambientali come la temperatura e l’acidità, producendo quantità diverse di metano. Nella creazione dei modelli climatici, dunque, bisognerà monitorare lo scioglimento del permafrost non come un fenomeno dalle conseguenze univoche, ma come un insieme di fenomeni eterogenei che possono innescare processi differenti.

Questa complessità rende la ricerca più difficile: riuscire a delineare un quadro generale dei cambiamenti che avvengono su scala microscopica in risposta al cambiamento climatico richiede un vasto lavoro sul campo, obiettivo che è tuttavia rallentato dalle difficili condizioni e dall’isolamento dei siti d’interesse.

Il disgelo degli ambienti caratterizzati dalla presenza del permafrost si sta verificando a vista d’occhio, come testimoniano gli scienziati che da decenni lavorano negli ambienti artici, intervistati dalla giornalista di Nature Monique Brouillette; nell’arco di pochi anni o decenni intere regioni, per secoli ricoperte da una coltre di terreno ghiacciato, potrebbero ritrovarsi spoglie. Quelli che erano fondamentali pozzi di carbonio potrebbero perciò invertire la loro funzione e divenire, in breve tempo, pericolose fonti di emissioni carbonio, in grado di alterare ulteriormente il clima globale. Un’approfondita comprensione dei meccanismi ecologici che regolano questi peculiari habitat, anche in vista di un loro (probabile) prossimo radicale mutamento, è dunque importante per individuare soluzioni e vie d’azione.

Una volta “risvegliati”, infatti, i microrganismi che popolano i terreni delle regioni artiche e subartiche potrebbero – come è stato già parzialmente mostrato da alcuni studi – modificare le proprie strategie di sopravvivenza, ad esempio sviluppando, nel decomporre la vasta quantità di materia organica rimasta per millenni intrappolata nel ghiaccio, processi che emettono maggiori quantità di anidride carbonica e metano. Senza un ampio database che consenta agli scienziati di conoscere approfonditamente le relazioni di questa vasta e invisibile comunità vivente con il terreno e con le altre forme di vita presenti in quegli ecosistemi, sarà impossibile intervenire tempestivamente per contrastare le emergenze che nei prossimi anni potrebbero sorgere.

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