SOCIETÀ

Piccoli segnali di distensione tra Russia e Ucraina

Centocinquantamila soldati russi schierati al confine con l’Ucraina erano qualcosa più di un avvertimento. E infatti la mossa di Putin aveva mandato in fibrillazione le cancellerie di mezzo mondo, dalla Casa Bianca ai pilastri dell’Europa. Fino a ieri, quando il ministro della Difesa russo Sergei Shoigu ha dato ordine di ritirare parte delle truppe (ma senza spostare le armi pesanti). Mentre Putin concedeva al presidente ucraino un incontro, non nella regione contesa del Donbass, come Zelensky proponeva, ma al Cremlino. “Sono disposto a incontrarlo in qualsiasi momento, se vuole discutere di relazioni bilaterali”, ha dichiarato Putin. “Se invece vuol parlare di Donbass, allora dovrebbe incontrare prima i leader delle Repubbliche separatiste di Donetsk e Lugansk”.  Zelensky l’ha presa comunque come una mezza vittoria: "La riduzione delle truppe al nostro confine riduce proporzionalmente le preoccupazioni", ha twittato. “L’Ucraina resta sempre vigile, ma accoglie con favore qualsiasi passo per diminuire la presenza militare e ridurre la tensione nel Donbass. L'Ucraina cerca la pace. Grato ai partner internazionali per il loro supporto". Il ritiro di alcune truppe russe (le unità della 41ª e 58ª armata, oltre a diverse divisioni aviotrasportate) da un’ampia area che, nord a sud-ovest, va dalla regione di Voronezh a Rostov sul Don, e più giù fino a Novorossijsk, dovrebbe essere completato entro il primo di maggio. 

Ma da qui a ritenere risolta la “questione Ucraina” ce ne passa. Per comprendere nel dettaglio lo scenario e le posizioni delle parti in causa, bisogna anzitutto fare un passo indietro di sette anni, al 2014, quando la Russia, in risposta alla cacciata del premier “amico” Viktor Yanukovic (accusato in patria di corruzione e di decine di omicidi), firmò l’annessione unilaterale della Crimea (mai riconosciuta dalla comunità internazionale) dopo un contestatissimo referendum. Ma il conflitto non si fermò lì, con gli indipendentisti filo-russi che occuparono appunto la regione del Donbass, nella parte orientale dell’Ucraina (dove la maggioranza della popolazione è di etnia russa), con la proclamazione, di nuovo unilaterale, d’indipendenza per le due “Repubbliche Popolari” di Donetsk e di Lugansk. Un conflitto che da allora non s’è mai interrotto e che gli esperti definiscono “a bassa intensità”. E a poco è servito il Protocollo di Minsk firmato nel 2015 da Russia, Ucraina, Francia e Germania con la supervisione dell’Osce, l’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, che indicava le condizioni per giungere a un armistizio, assegnando alle regioni separatiste un’ampia autonomia e uno status speciale. Un accordo di fatto mai rispettato dalle parti, con innumerevoli violazioni al cessate il fuoco (si calcola che in 7 anni le vittime siano state 14mila). Perché è proprio questa la posta in gioco: il controllo della regione del Donbass, divenuta ormai cerniera tra Europa e Asia. L’Ucraina, dopo la Crimea, non vuol perdere altro territorio (ha più volte chiesto una revisione del Protocollo di Minsk, senza ottenerla). La Russia, che per l’annessione della Crimea e per il suo sostegno ai separatisti, ha già subito sanzioni da Usa e Ue, punta invece a mantenere l’autonomia delle due “Repubbliche Popolari” controllate dagli indipendentisti (a 600mila di loro è stata già concessa la cittadinanza russa, con tanto di passaporto) e a contrastare la richiesta di adesione di Kiev alla Nato. 

Chi provoca chi?

In questa situazione prolungata di “stallo minaccioso”, il movimento di questi mesi delle forze armate russe è stato letto da Occidente (il fronte euro-americano) come un palese tentativo d’intimidazione (secondo Antony Blinken, segretario di stato Usa, si tratta della “più grande concentrazione di forze russe a ridosso dei confini dell’Ucraina dal 2014”), aggravato dalla recente chiusura dello stretto di Kerc, unica via d’accesso dal Mar Nero al Mare d’Azov, che racchiude i tre confini di scontro (a nord l’Ucraina, a est la Russia, a Ovest la penisola di Crimea). La Russia, si sa, ama poco le prevaricazioni. E se c’è da mostrare i muscoli non si tira indietro. “Mosca – scrive l’Associated Press – ha severamente avvertito il governo di Kiev di non usare la forza per rivendicare il controllo dei territori a est, controllati dai ribelli”. Ergendosi dunque a “difesa” di terre non proprie, ma “abitato” da suoi concittadini (la concessione della cittadinanza russa ai separatisti nasce proprio per “giustificare” un’azione diretta, anche se finora soltanto minacciata). Un alto funzionario del Cremlino, come riporta una corrispondenza della Bbc, ha avvertito che una simile azione militare sarebbe «l'inizio della fine dell’Ucraina”, il cui governo è “costituito da bambini che giocano con i fiammiferi”. Kiev ha ribattuto alzando ancor più i toni dello scontro, rivelando che proprio in Crimea la Russia avrebbe intenzione di schierare missili nucleariIl Segretario di Stato americano Blinken ha aggiunto: “Se la Russia dovesse agire in modo sconsiderato o aggressivo, ci saranno dei costi e delle conseguenze”.

Toni tutt’altro che concilianti, anche se ora, raggiunto lo scopo dell’assoluta attenzione internazionale, Putin indossa i panni del fautore del dialogo, che “concede udienza” al presidente ucraino, che solo pochi giorni fa aveva inviato un videomessaggio alla nazione, chiedendo di rimanere uniti di fronte alla minaccia militare, assicurando che l’Ucraina non ha paura della Russia, e chiamando Putin a un incontro «ovunque nel Donbass ucraino, dove c’è la guerra”. Zelensky aveva poi aggiunto: “In guerra tutte le parti in gioco perdono. Non è possibile proteggere qualcuno attaccandolo. Così come non è possibile liberare qualcuno assoggettandolo. Non è possibile portare la pace con un carro armato. Ucraina e Russia, a prescindere dal loro passato comune, guardano al futuro in modo diverso. Ma questo non costituisce necessariamente un problema, è un’opportunità. Almeno finché non sarà troppo tardi per fermare la matematica mortale delle future perdite militari”.

Il vero scontro è (di nuovo) Mosca-Washington

Appare comunque evidente che Mosca, al di là delle manovre di facciata, non vuole cedere di un millimetro sulla questione del Donbass. Perché il suo obiettivo più ampio è stroncare qualsiasi sostegno “occidentale” ai movimenti di rivolta in chiave anti-russa (come in Bielorussia) e scoraggiare qualsiasi ulteriore ipotesi di sanzioni. Putin, ad esempio, non ha certo apprezzato che l’Ucraina abbia autorizzato esercitazioni Nato congiunte sul suo territorio, per tutto il 2021, con presenza anche di duemila soldati statunitensi. Come dire: il “destinatario” dell’esibizione delle truppe ammassate al confine ucraino non sarebbe Kiev, ma Washington. La Casa Bianca non aveva esitato a infilarsi nella partita ucraina, con il presidente americano Biden, che dopo aver definito Putin “un killer”, aveva chiamato il presidente russo proponendogli un incontro a due “nei prossimi mesi”, da svolgersi in territorio neutrale, nel quale affrontare i vari punti di tensione tra le due superpotenze (l’Ucraina è solo uno dei fronti di una partita assai più ampia, a partire dal caso Navalny), nel tentativo di appianarli, o comunque di mantenere vivo il dialogo. Ma senza dimenticare «l'impegno incrollabile degli Stati Uniti per garantire la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina».

Ma anche altri attori compaiono sulla scena. C’è il presidente ucraino Zelensky (in calo di consensi per scarsi risultati sul fronte della corruzione e per una gestione approssimativa della pandemia), che ha ormai definitivamente voltato le spalle al Cremlino e sta tentando di trovare sponde in Occidente (ha già chiesto l’adesione alla Nato e all’Ue, mentre il 16 aprile è volato a Parigi per un vertice a tre con Macron e Merkel). C’è l’Unione Europea, che tenta di mantenere una comune linea di fermezza che ha mandato su tutte le furie il ministro degli esteri russo, Sergey Lavrov, che ha già paventato l’ipotesi di rompere le relazioni internazionali con l’Ue qualora fosse proseguita la politica delle sanzioni. E c’è il caso anomalo della Germania e del suo coinvolgimento nella realizzazione del gasdotto North Stream 2, tanto apprezzato e sponsorizzato da Angela Merkel, ma definito dal segretario di Stato americano Blinken «un progetto geopolitico russo destinato a dividere l'Europa e indebolire la sicurezza energetica europea». Con una postilla che è più di una minaccia: “Qualsiasi entità coinvolta rischia le sanzioni statunitensi e dovrebbe abbandonare immediatamente i lavori sull’oleodotto”. Occidente da una parte, Russia (e Cina) dall’altro: sembra quasi che l’intento di Biden sia di segnare ancor più nel profondo quel solco, che non è soltanto di confini, ma d’interessi, di alleanze, di strategie. Un attivismo, quello americano, che assume quindi il sapore di un avvertimento (per gli alleati): con la Russia non saranno più possibili accordi commerciali sganciati da una sintonia politica, che poi è lo scenario preferito da Putin (un esempio su tutti, i rapporti con Erdogan). 

La linea rossa di Putin

Tutto si può dire di Putin tranne che sia uno sprovveduto. Infatti, ha colto alla perfezione il momento di “allentare” la pressione. Prima con il discorso annuale alle Camere riunite: “Dirò solo qualche parola sulle questioni internazionali: vogliamo avere buoni rapporti con tutti gli attori del dialogo internazionale. Ma niente più provocazioni: siamo pazienti e responsabili, ma non superate la linea rossa”. Poi con l’annuncio del ritiro, anche se parziale, delle truppe dal confine ucraino. Che l’intervento militare russo fosse improbabile era stato già detto da diversi analisti. Come Andrey Kortunov, Direttore Generale del Russian International Affairs Council (Riac): “Non vedo nulla che il Cremlino possa ottenere dall'impegno militare diretto nella crisi ucraina. Penso invece che la politica russa sia più focalizzata sul mantenimento dello status quo». Mentre Tatiana Kastouéva-Jean, esperta di Russia presso l’Ifri(Institut Français des Relations Internationales) ritiene che lo scenario più probabile sia «un’instabilità permanente, un conflitto congelato”.

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