SOCIETÀ

Plastic free, l'accordo all'ONU per fermare l'inquinamento

Il 2 marzo è stata una data storica per la lotta alla salvaguardia ambientale: è stato firmato un accordo durante l’Assemblea dell’ambiente delle Nazioni Unite a Nairobi, che ha l’obiettivo di porre fine all’inquinamento da plastica, ma anche quello di forgiare un'intesa internazionale legalmente vincolante entro il 2024. Un obiettivo ambizioso da raggiungere in soli due anni: nella bozza del progetto viene chiesto di convocare il comitato negoziale intergovernativo per iniziare i lavori già nella seconda metà del 2022. A deliberarlo i rappresentanti di 175 nazioni, che si impegnano quindi a scrivere un trattato globale e vincolante per limitare la crescita esplosiva dell’inquinamento da plastica. Quali sono i punti cardine? Migliorare il riciclo della plastica, ripulire il mondo dalla plastica abbandonata e, soprattutto, porre dei limiti alla produzione di nuova plastica.

La quantità di plastica che il mondo consuma e il suo impatto sull’ambiente non sono di facile comprensione. Solamente il 9% della plastica prodotta è stato riciclato, mentre la maggior parte viene prodotta per essere utilizzata una sola volta. Dopo l’uso la plastica viene raccolta nelle discariche, viene incenerita o finisce nell’ambiente. La plastica è prodotta da combustibili fossili, ed è in grado di provocare danni durante tutto il suo ciclo di vita: è colpevole di rilasciare gas tossici e serra, che contribuiscono a riscaldare il pianeta.  L’accordo siglato dall’Assemblea delle nazioni unite per l’ambiente ha preso spunto da una proposta congiunta presentata da Perù e Ruanda. Un aspetto molto importante è che qualsiasi trattato globale venga sottoscritto dovrà affrontare l’intero ciclo di vita della plastica, dalla produzione allo smaltimento, passando per riciclaggio e riutilizzo. Per la redazione dell'accordo potrebbe essere preso come modello l’accordo sul clima di Parigi del 2015, che ha fissato degli obiettivi vincolanti per i Paesi, ma ha anche previsto più politiche per raggiungerli.

In Italia, intanto, a metà gennaio sono entrate in vigore le nuove regole relative alla vendita della plastica monouso (single use plastic, in acronimo sup). In buona sostanza, le regole vanno a vietare l’utilizzo di alcuni prodotti usa e getta di uso comune, al fine di ridurre l’inquinamento da plastica, con particolare attenzione verso i mari e gli oceani. Alla base di questa legge c’è la direttiva europea 904, approvata in parlamento nel giugno 2019 e recepita dal governo italiano a novembre del 2021. La direttiva europea, in primo luogo, promuove la sensibilizzazione dei consumatori verso un uso più sostenibile dei prodotti in plastica. La normativa prevede anche delle limitazioni, e in alcuni casi la messa al bando di alcuni prodotti. Tra gli oggetti che vedremo sparire dal mercato ci sono piatti, posate, cannucce, agitatori per bevande, aste di palloncini. “Ma la direttiva europea dice anche” spiega Michele Modesti, docente di Chimica industriale e tecnologica dell’università di Padova, “che devono essere posti sul mercato delle sustainable alternatives, delle alternative sostenibili”. Per altri tipi di prodotti monouso, come i contenitori per cibi e bevande, bottiglie, dato che non ci sono delle adeguate alternative sostenibili, è prevista una riduzione nei consumi, e soprattutto il produttore deve contribuire a sostenere l’aumento di consapevolezza e anche i costi di raccolta e riciclo. Per le bottiglie in Pet, in particolare, è previsto che entro il 2025 almeno il 25% dovrà essere prodotto con plastica Pet di riciclo, e poi entro il 2030 la percentuale dovrà salire al 30. “Ci sono molti prodotti per cui non sono presenti delle alternative sostenibili, per esempio i prodotti per l’igiene intima” prosegue il professor Modesti, “per questi occorre prevedere una serie di etichettature molto precise, in modo che le persona siano in grado di capire esattamente dove va posto il materiale alla fine del suo ciclo di vita”.

E poi ci sono le reti, in plastica, dei pescatori. Sul totale dell’inquinamento marino da plastica, più del 50% è dovuto ai sup, mentre circa il 27% deriva dalle reti. “Da sole, queste due voci” spiega Modesti “costituiscono più dell’80% dei rifiuti che finiscono in mare. Per questo la direttiva si è concentrata su questa tipologia di materiali”. 

Intervista al professor Michele Modesti del dipartimento di Ingegneria industriale, università di Padova

Per quanto riguarda invece le alternative sostenibili, inizialmente si è pensato che il Parlamento europeo di riferisse alle bioplastiche compostabili, ma nel maggio 2021, grazie a delle Faq sul recepimento della direttiva, l’Europa è stata più precisa a riguardo. Tra i materiali alternativi non sono comprese le bioplastiche, e nemmeno quei contenitori in cellulosa con dei film protettivi in plastica. “Per l’Europa le uniche plastiche sostenibili sono quelle naturali, ovvero quei polimeri che non vengono modificati chimicamente, quelli che al massimo possono aver subito un processo di estrazione, che è un processo fisico e non chimico” spiega il professore, che precisa anche che per le bioplastiche, ottenute con attraverso dei processi di polimerizzazione di monomeri, oppure di fermentazione, estrazione e purificazione, non ci sono ancora sufficienti dati che testimoniano il loro comportamento negli ambienti marini: “non è ancora certo che si degradino completamente, quindi per il momento rimangono escluse”. Nel 2027 ci sarà però una revisione della direttiva e, se le bioplastiche si dimostreranno adatte, potranno essere ammesse nuovamente nel mercato. 

Il professore però ricorda un punto importante: “Più dell’80% dei rifiuti in plastica che finiscono negli oceani deriva dai paesi asiatici”. Studi e dati dimostrano che i rifiuti arrivano all’oceano attraverso i cosiddetti “nastri trasportatori”, ovvero quei grandi fiumi che raccolgono la plastica dalle città in Cina, India, Filippine e altri stati asiatici. In questi paesi la maggior parte delle discariche non è controllata, cioè sono degli accumuli enormi di rifiuti che, all’arrivo di perturbazioni e tifoni, fluiscono verso i fiumi e, di conseguenza, negli oceani. In Europa c’è una grande produzione di rifiuti, ma il nostro sistema di smaltimento è controllato. “Ad oggi mediamente il 40% dei nostri rifiuti finisce ancora in discarica. Un 30% viene riciclato, meccanicamente, e un altro 30% finisce alla termovalorizzazione” spiega il professor Modesti. 

Di conseguenza è importante e urgente che il problema dell’inquinamento dei mari sia affrontato adeguatamente, ma non solo a livello europeo. Occorre un impegno a livello mondiale, soprattutto dopo che questi due anni di pandemia hanno visto incrementare in ogni dove l’utilizzo di prodotti di protezione individuale. In questo senso l’accordo siglato a Nairobi sembrerebbe essere un grande passo verso questa direzione.

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