SCIENZA E RICERCA

La politica dell’ecologia: ambiente e giustizia, un binomio indissolubile

Quello che va dal 2021 al 2030 è un decennio centrale, sotto tanti punti di vista, per la lotta alle molteplici crisi ambientali in atto. Tra i tanti obiettivi la cui realizzazione è fissata al 2030 ve n’è in particolare uno che, forse, è più essenziale di altri: la rigenerazione degli ecosistemi globali. A questo obiettivo le Nazioni Unite hanno dedicato la decade apertasi nel 2021: è iniziata, infatti, la UN Decade of Ecosystem Restoration (2021-2030), che pone alle nazioni l’obiettivo di ripristinare, su scala globale, almeno un miliardo di ettari di terreni degradati, onorando gli impegni presi nell’ambito delle Convenzioni di Rio (sulla Biodiversità, sulla Desertificazione e sul Cambiamento climatico) e della Bonn Challenge.

Nel Report che presenta l’iniziativa sono elencati i princìpi che dovranno guidare le azioni di governi e organizzazioni locali per la rigenerazione degli ecosistemi terrestri e marini: il ripristino dovrà innanzitutto «promuovere una governance inclusiva e partecipativa, la giustizia sociale e l’equità fin dall’inizio e per tutta la durata del processo»; inoltre, la rigenerazione «dovrà essere fondata su obiettivi chiari di breve e di lungo periodo, che affrontino tanto le questioni ecologiche quanto i problemi socio-economici»; infine, tra i princìpi viene ricordata la necessità che le azioni «mantengano uno stretto legame con il contesto locale e con le specifiche condizioni socio-ecologiche e culturali».

Nonostante tali indicazioni – inclusività, equità, attenzione alla dimensione locale e culturale –, e nonostante l’indubbia importanza di questo sforzo, da parte dell’ONU, per avviare un’azione globale condivisa di salvaguardia e ripristino degli ecosistemi, anche in vista degli obiettivi dell’Agenda 2030, le premesse e i pilastri teorici della Decade of Ecosystem Restoration hanno sollevato dubbi da più parti.

Un gruppo di studiosi – tra cui ecologi, biologi, teorici di politica ecologica – mette in luce come, al di là delle dichiarazioni di principio, molti degli interventi di ripristino ecologico già in atto siano portati avanti con criteri ben diversi da quelli delineati dalle Nazioni Unite. L’ultimo numero della rivista Ecological Restoration, intitolato “Restoration for Whom, by Whom?”, si propone di affrontare le tante contraddizioni ancora esistenti fra la teoria e la pratica della conservazione e del ripristino degli ecosistemi, attraverso una lettura critica dell’approccio tecnico (e tecnocratico) troppo spesso adottato, che non tiene conto delle molteplici implicazioni sociali e politiche che ogni intervento sul territorio porta con sé.

La critica che gli studiosi muovono alle attuali pratiche di conservazione e rigenerazione è la «assoluta predominanza delle scienze naturali» nella loro determinazione e pianificazione, situazione che determina da una parte la tendenza ad attuare interventi top-down e standardizzati, che non tengono conto delle specificità e delle problematiche locali, e dall’altra una totale disattenzione ai risvolti sociali e politici di tali interventi. La critica mossa da una prospettiva femminista – quella adottata dalle curatrici di questo numero di Ecological Restoration – mette in discussione proprio la retorica che, da alcuni anni a questa parte, si concentra sulla dimensione della crisi e propone, per realizzare la necessaria transizione “verde” verso uno sviluppo sostenibile, esclusivamente soluzioni tecnologiche, che guardano soltanto alla dimensione biofisica. Manca, ancora oggi, l’attenzione a come si sviluppano, negli ecosistemi danneggiati e in quelli protetti, le relazioni tra uomo e natura, spesso frutto di una lunga coevoluzione e, ancora oggi, portatrici di pratiche e conoscenze tradizionali importanti per la conservazione e per la rigenerazione dei territori.

La domanda che bisogna porsi nel pianificare interventi di rigenerazione degli ecosistemi, allora, è: «Chi stabilisce i programmi di ripristino, e in favore di chi? Perché, in che modo? Quali altri interessi politici ed economici influenzano questi programmi?».

L’approccio politico all’ecologia si concentra su tutti quegli aspetti delle pratiche di tutela e ripristino degli ecosistemi che l’approccio scientifico dominante tende a lasciare in ombra. Ad esempio: come incide un programma di ripristino ecologico sulla vita quotidiana degli abitanti del territorio interessato? In che modo vengono modificate le relazioni di potere presenti nella comunità locale? Il ripristino ecologico, sottolineano le curatrici del volume nel loro articolo introduttivo, può determinare cambiamenti negli equilibri fra le relazioni di potere, inasprendo in alcuni casi le disuguaglianze tra gruppi (ad esempio tra ceti o tra generi). I piani di ripristino, infatti, hanno effetti diretti sulla terra, che per molti è la prima (a volte unica) fonte di sostentamento e di ricchezza: negare o ridurre l’accesso a questa risorsa può mettere in crisi gli equilibri, a volte secolari e spesso fragili, all’interno delle comunità coinvolte.

Inoltre, può accadere che una terra “rigenerata” acquisisca un valore economico che prima, quando era considerata “degradata”, non aveva, attirando così interessi che mettono in discussione i diritti delle stesse popolazioni locali: queste, infatti, sono spesso prive dei mezzi – legali ed economici – per far valere i propri diritti di proprietà e di utilizzo, e potrebbero così essere spossessate di territori da cui dipende non solo il loro sostentamento, ma la loro stessa identità culturale.

Le agende globali – proseguono Marlène Elias, Deepa Joshi e Ruth Meinzen-Dick – sono sostenute da discorsi universalizzanti che «precludono la possibilità di costruire percorsi verso la sostenibilità plurali e diversificati, che si adattino alle realtà, alle culture e alle priorità delle diverse popolazioni e luoghi coinvolti». Nel definire i piani d’azione bisognerebbe cioè prendere in considerazione, in primo luogo, le esigenze delle popolazioni locali, senza trascurare, d’altra parte, le loro conoscenze legate al territorio: si tratta infatti di un patrimonio inestimabile, essenziale per attuare politiche di tutela e rigenerazione efficaci.

L’assegnazione di standard per valutare la “salute ambientale” di un territorio non è basata soltanto su criteri scientifici, ma – sostengono le ricercatrici – dipende molto anche dal contesto sociale e dal valore percepito di un territorio dal punto di vista economico e culturale. La componente scientifica, ecologica, entra in gioco solo una volta che tali standard siano stabiliti, ma non determina – da sola – le priorità di intervento e di investimento. Ecco perché è essenziale, prima di varare piani di conservazione o ripristino degli ecosistemi, coinvolgere nel processo decisionale le popolazioni locali, prestando attenzione alle loro conoscenze e assicurandosi che i loro diritti e le loro esigenze siano rispettati.

Ci sarà bisogno di sfidare quei sistemi oppressivi che sono la causa tanto della degradazione ambientale quanto dell’esclusione sociale M. Elias, D. Joshi e R. Meinzen-Dick

Tutto ciò è a maggior ragione valido se affrontato da una prospettiva storica: le più recenti evidenze scientifiche confermano con sempre maggiore certezza che quasi tutti gli ecosistemi terrestri, anche quelli che oggi appaiono selvaggi e incontaminati, sono in realtà il frutto di un’antica e prolungata storia di coevoluzione con gli esseri umani. I progetti che mirano a un “ritorno” a paesaggi interamente naturali ignorano l’importanza della presenza umana (laddove non pesantemente invasiva) come elemento ecologico centrale negli ecosistemi da rigenerare. Dunque, «un’attenta comprensione di come vengano utilizzate le terre, di quali siano le rivendicazioni e di come i rapporti di proprietà, consuetudinari e legali, si siano evoluti nel tempo è fondamentale per evitare lo sradicamento dei gruppi più emarginati e l’espropriazione dei loro mezzi di sostentamento, in particolare laddove il recupero viene attuato in contesti in cui la governance è debole, dove ci sono storie di conflitti per il possesso della terra e di discriminazione contro le donne e le comunità indigene».

La soluzione a problemi tanto complessi, in cui si intersecano interessi e bisogni diversi e spesso in conflitto gli uni con gli altri, consiste – dal punto di vista della Ecologia politica femminista (Feminist Political Ecology, FPE) – nell’impegno, da parte dei decisori politici che agiscono a tutte le scale, dalla dimensione globale a quella locale, a fare in modo che la rigenerazione sia democratica e inclusiva.

Si tratta di recuperare quella visione olistica che con un approccio eccessivamente incentrato sugli aspetti economici e scientifici viene inevitabilmente perduta: la sostenibilità – e non lo sviluppo sostenibile: davvero vogliamo ancora affidarci al capitalismo, che ci ha condotti fin sull’orlo di una crisi senza ritorno?, si chiedono le studiose – la sostenibilità, dunque, non può essere raggiunta se si tutela uno soltanto dei suoi pilastri. La giustizia ambientale potrà essere raggiunta solo se, nell’intervenire per tutelare gli ambienti naturali, si porrà altrettanta attenzione alla salvaguardia della giustizia sociale, accorrendo soprattutto in difesa degli emarginati, di quei tanti popoli, gruppi e ceti sociali che oggi, nel mondo, non hanno voce.

«Per realizzare una sostenibilità inclusiva attraverso la rigenerazione ci sarà bisogno di sfidare quei sistemi oppressivi che sono la causa tanto della degradazione ambientale quanto dell’esclusione sociale». Ecco perché il “destino” degli ecosistemi non può essere deciso dall’alto, attuando soluzioni tecnologiche che, con una ingiustificata pretesa di universalismo, vogliono semplificare problemi irrimediabilmente complessi. La risposta alla crisi climatica e ambientale – questioni globali, che riguardano l’intero pianeta e tutta l’umanità – non dovrà allora essere universale, ma “pluriversale”: unità nella diversità.

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