CULTURA

Fra professione, politica e scrittura, il caso della norvegese Anne Holt

Scriviamo in tanti, più o meno tutti quanti leggiamo. Certo, i lettori abituali di libri non sono la maggioranza dei sapiens, non proprio tutti i lettori scrivono editorialmente no fiction e fiction, non proprio tutti gli scrittori leggono abbastanza, comunque i due mondi del leggere e dello scrivere sono adiacenti, coinvolgono una fetta ampia di popolazione e praticamente non occupano mai tutto il tempo da svegli o ogni fase della vita di un individuo, fortunatamente si fa anche altro nel corso dell’esistenza. La riconoscibilità e l’apprezzamento sociale di un individuo raramente sono determinati solo da quantità e qualità delle sue scritture.

Le storie delle letterature hanno, invero, a lungo riguardato più lo scrivere che il leggere, pur se già da molti decenni ci si è maggiormente resi conto quasi ovunque che non era esaustivo discettare su romanzi, scrittori e contesto politico-culturale senza tener conto dell’editoria, dei lettori e delle dinamiche sociali. non solo quelle loro contemporanee. Sono rari, in quasi tutte le epoche di ogni paese, gli scrittori che si sono mantenuti con la pura scrittura. Per un lungo periodo o per sempre, chi ama e riesce a scrivere per altri ha svolto specifiche ulteriori attività per sopravvivere e riprodursi, che ne hanno pure determinato l’identità sociale.

Per certi versi, la politica può essere assimilata alla scrittura, soprattutto giornalistica (non alla lettura). Ognuno di noi sapiens ha fatto politica in vario proprio modo da millenni. Lo sappiamo, inutile ricamarci troppo sopra. Qualcuno è divenuto un “politico”, pochissimi per tutta la vita a tempo pieno e in genere ne diffidiamo, con qualche ragione. Tuttavia, un politico inevitabilmente scrive molto: anche quando si limita a parlare le frasi, che pronuncia vengono verbalizzate, diventano opinioni leggibili e riproducibili, acquistano pubblicità e socialità. Anche i politici diventano spesso, prima o poi, scrittori, chiedano o meno l’aiuto di appositi ghost writers.

Esiste oggi una bravissima norvegese, giornalista avvocata politica scrittrice, che merita di essere letta, si chiama Anne Holt, è nata a Larvik 64 anni fa, il 16 novembre 1958. È cresciuta a Lillestrøm e Tromsø per poi trasferirsi a vent’anni dal 1978 nella capitale Oslo . Si è laureata in legge all'Università di Bergen nel 1986, mentre lavorava (dal 1984 al 1988) per l'azienda radiotelevisiva di stato norvegese (Norsk rikskringkasting, NRK) e, successivamente, al dipartimento di polizia per due anni prima di diventare avvocato, esercitando la professione dal 1994. Nel 1990 è tornata alla NRK come giornalista ed anchor woman per il notiziario Dagsrevyen. È stata anche ministra della giustizia norvegese per alcuni mesi tra la fine del 1996 e l’inizio del 1997, dimettendosi presto per ragioni di salute.

Anne Holt vive ancora a Oslo con la compagna Anne Christine Kjær (nota anche come Tine Kjær) e la loro figlia Iohanne. Nel 1993 aveva pure iniziato la carriera di scrittrice con La dea cieca (così è stato presentato al pubblico italiano solo nel 2010 da Einaudi), protagonista il suo primo e più famoso personaggio seriale, l'ufficiale di polizia Hanne Wilhelmsen, raggiungendo ben presto un grande successo, non solo in patria. In Italia Hobby & Work  pubblicò nel 1999 il suo secondo romanzo, ancora con Wilhelmsen, del 1994, Sete di giustizia, ripubblicato poi da Einaudi, sempre nel 2010, nel pieno del lancio italiano della scrittrice, iniziato nel 2008.

Conosciamo meglio la protagonista dall’esordio italiano. Siamo ovviamente a Oslo, maggio e giugno 1993. Hanne Wilhelmsen, 34enne alta snella, carina e simpatica, lesbica senza outing, fa la poliziotta. L’autunno precedente ha appena risolto il primo caso importante. Occhi azzurri, cicatrice (recente, appunto) sopra il sinistro, iride bordata di nero, corti capelli castani, sensuale bocca carnosa, da 15 anni convive con la coetanea bionda Cecilie Vibe (che non risponde al telefono di casa), sceglie indipendente: fiori in terrazzo invece che feste comandate, scorribande in Harley rosa fucsia invece che auto, fumo frequente invece di smettere. Finora si è occupata di 42 casi di stupro e non ci fa mai il callo, quei cazzo di uomini non capiscono quanto male fanno, di tutti i tipi, per sempre. In mezzo a tante chiamate c’è quella della 24enne Kristine, brillante intelligente studentessa di medicina, violentata a ripetizione in casa in centro.

Il giorno della chiamata era sabato e nei precedenti la polizia aveva trovato luoghi (parcheggio, legnaia, stazione metro, baracca) con pareti imbrattate di sangue (anche umano). Forse tutti questi casi di stupro potrebbero risultare collegati. Kristine e il padre dentista non lo sanno, indagano separatamente, qualcosa scoprono (magari per caso), decidono di vendicarsi, Hanne cerca di non lasciarli soli. La vendetta, Einaudi 2010 (orig “Salige er de som torster” 1994, traduzione di Maria Teresa Cattaneo) è, dunque, il secondo caso della prima serie, l’altra di Johanne-Yngvar aveva già iniziato a essere molto amata nel nostro paese; il titolo italiano non particolarmente originale, la narrazione in terza varia, bello stile che salta nessi inutili, con soluzione geniale (poco forzata). Segnalo il pisello a pag. 68. Cibo e musica ancora acerbi. Dopo di allora molti altri romanzi con Wilhelmsen, in tutto dieci in venticinque anni, non solo a Oslo (anche per le traversie della protagonista). La protagonista resta circa coetanea dell’autrice, l’età cresce in parallelo.

Prendiamo l’ottavo: Quota 1222, traduzione di Margherita Podestà Heir, Einaudi 2015 (orig. 2007). Siamo a Finse, Alpi norvegesi, durante quattro giorni di febbraio 2007. L’uragano Olga fa deragliare un treno, muore il macchinista. Feriti e sconvolti i 268 passeggeri vengono a stento condotti in salvo, perlopiù in un albergo confortevole, vi restano isolati perché la bufera peggiora, oltre 30 gradi sottozero, tutto coperto di neve. Fra di loro c’è anche l’ora 47enne Hanne Wilhelmsen, da 4 anni sulla sedia a rotelle, stava andando a Bergen da un americano specialista di lesioni alla spina dorsale. È omosessuale e ombrosa, quasi sempre tappata in casa. Vive a Oslo con la compagna Nefis, la loro figlia Ida di quasi 4 anni e la governante Marry.

Prima che un proiettile le avesse tranciato il midollo spinale, Wilhelmsen era stata brava poliziotta per oltre un ventennio: suo malgrado, si trova costretta a indagare sull’omicidio di due sacerdoti una notte dopo l’altra, Cato sparato con pistola, Roar infilzato con ghiacciolo. Il mistero è completato dagli appartati ospiti dell’ultima carrozza: una principessa, pare; un’altra grande personalità, sembra; un terrorista, forse. Con relative guardie del corpo! E, non a caso, ci sono altri morti in poche ore, oltre agli assassinati. Il titolo fa riferimento all’altezza montana dell’ambientazione. Le specialità alimentari sono succulenti e locali: sluskesuppe e mulligatawny, poi zuppa di cavalfiore e arrosto di cervo.

Il nono della serie è La minaccia (Einaudi 2016, originale del 2015, traduzione di Margherita Podestà Heir). Siamo tornati a Oslo, aprile 2014. La figlia Ida ha ormai quasi 11 anni. Hanne sente un’esplosione dall’appartamento, viene coinvolta, verifica vendette e razzismi, Holt ci immerge nell’attualità degli estremismi di varie fazioni, con acume, ritmo, competenza. Il decimo è di pochi anni fa, La condanna, ancora tradotto da Margherita Podestà Heir, Einaudi 2018 (orig. 2016), doloroso e particolarmente bello. Siamo a Oslo nel gennaio 2016 (con antefatto e riferimenti al dicembre 2001). Il corpulento 58enne commissario Kjell Bonsaksen lavora in polizia dal 1978, sta andando in pensione, si trasferirà con la moglie in Provenza, non lontano dall’unico figlio e dai due nipotini. Per caso incontra il 47enne Jonas Abrahamsem, legge rassegnato tormento nei suoi occhi; nel 2004 lo aveva fatto accusare, incriminare e condannare (a dodici anni) per omicidio pur non essendo del tutto convinto fosse colpevole, è il solo sassolino che sente nelle scarpe da lavoro; così decide di consegnare a Henrik Holme il gonfio raccoglitore ad anelli del caso chiuso e gli chiede di dare un’occhiata.

Henrik è ormai giovane e famoso, pur timido e pieno di tic, reduce dal fantastico successo ottenuto nel ridurre la devastazione di un attentato terroristico e nell’arrestarne i responsabili (ora sotto processo); da 5 anni in polizia, continua a lavorare a casi irrisolti, ormai da due insieme alla mitica pragmatica 55enne Hanne Wilhelmsen, bloccata su una sedia a rotelle e sempre più scontrosa sarcastica caustica (salvo che con la moglie matematica musulmana Nefis e la loro figlia ora 12enne Ida). Hanne lo ascolta con stima e rispetto ma pensa ad altro, ha un suo tarlo presente. Si sarebbe appena suicidata la malvagia 62enne Iselin Havørn (blogger di destra con uno pseudonimo da poco scoperto) e non riesce a crederci: era una donna forte con enorme autostima, credeva di svolgere una guerra santa xenofoba e non dubitava mai, “nessuno si toglie la vita soltanto perché passa un momento sgradevole”.

Entrambe le indagini sono “non” casi, là potrebbe essere suicidio, qui chissà come dovrebbe non esserlo, nessuno potrebbe e dovrebbe preoccuparsene. Fortunatamente se ne occupano, con la solita perspicacia e un aiuto reciproco.Considerate le vicissitudini affettive e professionali di Hanne, ormai i protagonisti sono appunto due, il solitario Henrik va assolutamente promosso, lui che ha trent’anni e non ha mai fatto sesso, esile e insicuro. La narrazione è ancora in terza varia al passato, tanti accanto a loro, fra cui Kejll, Jonas (il tormento è la sua seconda vita, dopo la morte della figlia in un casuale incidente), Maria (moglie di Iselin). I due poliziotti procedono senza alcuna autorizzazione o competenza formale, oltretutto le vicende sono chiuse e separate. Poi tutti d’improvviso iniziano a preoccuparsi perché viene pure rapita una bambina di tre anni, Hedda: la madre è famosa, il nonno ha vinto al lotto, i fili si moltiplicano e s’ingarbugliano. Non ci si può congratulare per ogni condanna (da cui il titolo italiano).

Il romanzo è avvincente, gestito con maestria fra passato recente e presente convulso di tre settimane. L’autrice riesce a offrirci riflessioni informate e acute rispetto al suicidio, a Breivnik, alla destra che investe sulla paura, alla normale omosessualità, alla articolata genitorialità. Negli appartamenti norvegesi ci si toglie le scarpe all’ingresso, come forse è noto (e utile). Segnalo la risata sui gialli con almeno due casi apparentemente diversi e realmente intrecciati, a pag. 191. E le trousse delle compagnie aeree con tutto l’occorrente per la toilette, a pag. 371. Jazz e Grisham. Nel sentirsi liberi e morti, ha la sua importanza una vecchia canzone interpretata da Janis Joplin, “Me and Bobby McGee”. Vino prevalentemente rosso, questa volta.

Anne Holt, nel frattempo della fortunata serie Wilhelmsen, ha scritto anche tanto altro, di genere e non solo. I suoi sono noir di impianto giallo, scandaglia la società senza rassicurazioni, considera il movente il buco della serratura dell’atto criminale, l’indagine serve a capire le connessioni (ben diverse dalle casualità). L’amata protagonista ha via via maturato quasi il peggior carattere di eroe seriale che si ricordi. E, non a caso, ormai ha sempre un “contraltare”, che nel romanzo innevato è Berit (nome di un’autrice che aveva scritto a quattro mani altri romanzi della serie), splendida deliziosa efficiente direttrice dell’hotel. Le altre serie sono egualmente interessanti, cinque i romanzi dedicati a Johanne Vik, il primo nel 2001, l’ultimo circa dieci anni dopo, bellissimo: Il presagio, Einaudi 2017, traduzione di Margherita Podestà Heir (originale del 2012).

Anne Holt prende qui di petto quanto accadde davvero in Norvegia il 22 luglio 2011. Mentre polizie e ambulanze si dirigono a Utøya dove Breivik ha appena ucciso 69 giovani laburisti tra i 14 e i 20 anni, sta per svolgersi una festa di ragazzi e ragazze e la 43enne Johanne arriva per aiutare i preparativi, la padrona di casa era sua compagna di liceo e da un po’ l’aveva persa di vista. La trova in soggiorno col marito, ha in grembo il cadavere del figlio Sander, caduto dalla scala. C’è qualcosa che non porta, si indaga. La narrazione (in terza) tratta con acume e tragedia varie storie di violenza, concentrandosi sulle troppe domestiche subite dai minori, contro alcune delle quali non facciamo abbastanza. Non c’è mai cronaca fredda, sempre spunti reali per innestare vitali narrazioni noir. E funziona anche nella serie più recente, 2018-2020, Einaudi 2020-2022, ancora nelle traduzioni di Margherita Podestà Heir.

La pista. La prima indagine di Selma Falck, Einaudi Torino. Oslo, dicembre 2017. Selma Mariska Falck è allo sbando. Già atleta ai massimi livelli (due volte argento olimpico di pallamano), 1,78 per 68, poi ammirata avvocata di fama, uno dei volti più famosi della Norvegia, nominata nel 2015 donna più elegante del paese, appena compiuti 51 anni all’insaputa di tutti si è ridotta in un tugurio sul lastrico per ammanchi di gioco (sedici milioni di corone, dieci valgono circa un euro). Ha comunque perso marito, figli (un 19enne e una 23enne), casa e affari, si mantiene con qualche vizioso poker segreto ed è pure ormai da tempo fisiologicamente incapace di piangere. Intanto, un uomo è rinchiuso in una cella con una parete che si avvicina e rimpiccolisce sempre più le dimensioni della stanza, vorrebbe uccidersi ma non sa come fare, è claustrofobico e terrorizzato; mentre la famosa 23enne sciatrice di fondo della nazionale Hege Chin Morell è risultata inspiegabilmente positiva ai test antidoping, siamo alla vigilia delle Olimpiadi invernali di PyeongChang, un disastro.

Per varie ragioni nessuno cerca l’uomo mentre tutti parlano della ragazza. E il 55enne potente ricchissimo padre impone a Selma una scommessa, visto che dedica la vita alla irreprensibile figlia e Selma aveva sottratto i soldi persi proprio a lui quando lo aveva come cliente (obbligata presto a restituirglieli, non si sa come, insieme all’abilitazione all’esercizio della professione e all’impegno assoluto di non giocare mai più): ora dovrebbe invece aiutare Hege prima che ci sia l’ultima selezione, ha tempo circa un mese e, se riesce a dimostrare il sabotaggio e a farla scagionare, non dovrà ridargli niente. Un’impresa quasi impossibile, tanto più che, poche ore dopo, il miglior fondista viene trovato morto e subito si scopre che probabilmente pure lui aveva assunto sostanze proibite. Sembra davvero che qualcuno sia seriamente intenzionato a diventare criminale e assassino.

Selma ha un unico vero amico, il puzzolente barbone Einar Falsen, residente da undici anni in più scatoloni, di dimensioni diverse, sparsi in quattro posti differenti di Oslo, nei quali patisce fame (spesso) e freddo (di rado). Era stato un poliziotto molto abile e intuitivo, aveva pure scritto il banale caotico L’Abc dell’investigatore, poi aveva ucciso un pessimo uomo (che se lo meritava, secondo loro), Selma lo aveva difeso ma lui aveva comunque scelto di abbandonare ogni interesse terreno e vagabondare, da tempo non parla più con nessuno (esclusa lei), dissociato ma presente. Che straordinaria coppia per risolvere misteri! La narrazione è in terza varia, inframezzata talora dalla sceneggiatura che sta redigendo l’uomo sornione che progetta misfatti.

I personaggi sono tutti tendenzialmente seriali, presentati lentamente via via che si dipana questa prima avvincente avventura, interessante anche per la descrizione dell’ambiente dello sci di fondo (in quel paese lo sport per antonomasia, primordiale, un’essenza identitaria che unisce radicali e razzisti), delle federazioni sportive (le “gang”) e del doping (combattuto con sistemi inaffidabili che non tutelano gli atleti). Un presuntuoso furbo intellettuale intruso di quel mondo aveva scritto nel 1985 un romanzo vendutissimo e premiatissimo intitolato “Piste dimenticate”, da cui il titolo anche di questo. E si ragiona tanto sui bugiardi, sul saper mentire e sulle varie infedeltà che richiedono tempo ed energie. Hege legge Elena Ferrante. Selma canticchia gli Abba e beve solo enormi quantità di Pepsi Max senza zucchero, Einar brandy. Però circola vino rosso. Da gustare.

La tormenta. Le indagini di Selma Falck, 2021 (orig. 2019). Oslo, da primavera ad autunno 2018. Il 18 maggio muore Ellev Trasop (1918) dopo aver consegnato il cofanetto in cedro al ministro della Giustizia Tryggve Mejer, una cosa segreta. Loro fanno ancora parte di Stay Behind, una potente diramazione mai sciolta, si riunisce il Consiglio e non si fidano l’uno dell’altro, tanto meno l’unica donna, Berit Ullern il Maggiore (nome che tornas…). Il fatto è che il ministro è sotto pressione: la moglie Cathrine è stufa dei suoi persistenti incarichi, la figlia Mina è preoccupata per il padre e per la loro separazione, minacce e insulti avvelenano la rete stressando (come ovunque) la democrazia liberale rappresentativa. Tryggve propone al Consiglio l’operazione Tormenta ma gli altri votano contro. Tuttavia, il 21 luglio, mentre è in corso il pranzo matrimoniale, viene ucciso il 36enne sposo Sjalg Petterson, shock anafilattico in quanto allergico alle noci. Era uno degli obiettivi dell’operazione che sembra avviata su più fronti: avvengono sofisticati attacchi via internet a siti di odiatori sociali di destra, Petterson stesso era un esponente conservatore che aveva preso di mira il ministro.

Il fatto è che la 24enne sposa era Anine, la figlia di Selma Mariska Falck, pur avendo rinnegato la madre, comunque presente a parte della cerimonia. Selma ha un poco recuperato la forma proprio risolvendo il (precedente) clamoroso caso e ora si mantiene investigando qua e là, sempre famosa, brillante e affascinante. Il bel cuoco del pranzo matrimoniale non vuole aver guai e si rivolge a lei. Selma si procura le foto e cerca di capire se sia stato un caso o un omicidio, attratta dal 27enne cuoco e in debito con la figlia. Non uscirà facilmente dalla torbida storia. Sembra peraltro riuscita a farabbandonare gli scatoloni in strada al puzzolente amico ex barbone Einar Falsen, trasferendosi anche lei in migliore residenza. “Tutti hanno dei segreti. Cose di cui ci vergogniamo.” Lei non beve più alcol, ingurgita bottiglie grandi di Pepsi Max, si limita a giocare a poker, raramente e di notte, adottando vari espedienti contro la ludopatia.

La protagonista resta sempre cuore e muscoli della narrazione, pur in terza varia al passato sugli altri personaggi-chiave. La trentina di capitoli alternano le stagioni, incontriamo subito la protagonista che a inizio autunno si trova pestata a sangue senza memoria, dentro un incendio in una baita di montagna, data per morta, con l’antica Volvo rossa bruciata; poi, ogni tanto, seguiamo brevemente i passaggi attraverso cui cerca di cavarsela, mescolati con la complicata indagine precedente, soprattutto durante l’estate. Lassù nella tormenta (senso doppio del titolo) riscopre anche le lacrime, dopo che da tempo sembrava fisiologicamente incapace di piangere.

Holt riesce ad aggiornarci con competenza e poesia sul doppio Stato, ben noto anche alla storia italiana, ora ai tempi dell’aggiornato suprematismo bianco, di inediti inafferrabili populismi e di novelle guerre fredde (riflettendo sull’avversione nordica tanto per gli zar quanto per i sovietici, poi adesso sensatamente per le azioni degli agenti russi). Molti i prodotti italiani lì ancora di moda. Documentati e drammatici tutti i riferimenti all’odio verso i migranti, liberi e rifugiati. Sugli estremisti, segnalo la teoria del ferro di cavallo, a pag. 398. Nel seminterrato Mina non scorda la promessa contenuta dalla canzone svedese cantata dal padre alla chitarra. Terminato il secondo della serie, durante la pandemia Holt ha lavorato ad altri romanzi, spesso accanto ai genitori anziani e lontana dalla moglie e dalla loro figlia social).

L’ultimo tradotto è Lo sparo. Le indagini di Selma Falck, 2022 (orig. 2020, Mandela effekten), pag. 539 euro 20. Siamo a Oslo dal 5 settembre al 22 settembre 2019. Selma Falck è con due care vecchie amiche in una caffetteria coi tavolini all’esterno. Sparano di giorno con il fucile da lontano, Selma viene colpita dal proiettile che ha appena perforato da dietro la testa di Linda Bruseth alla sua sinistra, Vanja Vegge resta illesa seduta al centro di fronte a loro. Subito non si capisce chi fosse il bersaglio, Linda era una deputata anonima, Vanja una psicologa amata, Selma è la più (casualmente) famosa delle tre; all’ospedale la ricoverano, la spalla è ferita e fa male; l’ispettore Frederik Smedstuen avvia un primo informale interrogatorio, riferendo utili corrette opinioni dell’esperto erudito affascinante consulente Birger Jarl Nilsen. Ben presto viene confermato che volevano uccidere Linda. Perché mai?

Con l’aiuto di Einar Falsen, Selma spulcia comunque i casi rifiutati o in sospeso, anche perché qualcuno le è entrato nell’appartamento, lasciando ricordi della sua infanzia. L’urgenza di verificare cosa sta accadendo nasce dalla grande priorità di rivedere il nipote Skjalg di cinque mesi che la figlia Anine non si fida a fargli tenere, considerata la vita pericolosa della nonna. E, poi, l’amico giornalista (dell’Aftenavisen) Lars Winter coinvolge Selma nell’inchiesta lasciata in sospeso da un collega morto (in un incidente stradale con un tassista) su alcuni casi relativi all’affidamento di minori. Arriva un altro appariscente omicidio (inscenato da suicidio) di una bassissima giudice della Corte, altri guai misteri morti. Molto sembra ruotare intorno alle dolorose storie del Ministero della Famiglia e Selma pensa alle sue di esperienze familiari, incombe il 53esimo compleanno (il 16 settembre).

La narrazione è in terza varia, più lunghi e articolati i capitoli su Selma, tanti e più brevi quelli sulle altre cinque figure significative della vita della protagonista o della storia, fra cui l’Uomo che va spesso al cimitero e pianifica la competente esplosione del caso. Nell’antefatto di maggio 2010 l’incontro fra una donna intelligente e un giovane con l’idea dell’inedito “concepimento” di una futura nascita, gravida di conseguenze. Il titolo norvegese è il titolo dell’ultimo capitolo, con la lettera del giovane figlio al papà, “L’effetto Mandela”, ovvero (come spiega Selma): “noi esseri umani possediamo una fantastica capacità di ingannare noi stessi… Il fatto è che non stiamo mentendo davvero. Ricordiamo male. Crediamo di aver vissuto qualcosa che invece non ha mai avuto luogo”. Prende spunto da una sudafricana capace di raccontare il funerale di Nelson Mandela, presunto morto in prigione nel 1990.

Sullo sfondo dei dialoghi fra i protagonisti del romanzo il vero scandalo del Nav, uno dei più grandi enti pubblici norvegesi, responsabile di molteplici errori giudiziari compiuti a danno di cittadini che erano stati accusati di aver usufruito illegalmente dell’assistenza sociale. Nella nota finale l’autrice accenna alla ragione fondamentale dello splendido romanzo: “le battaglie di natura giuridica tratte dalla realtà sollevano una serie di questioni difficili e io ho scritto questo libro spinta da uno stupore di carattere politico, giuridico e umano”. Selma beve Pepsi Max (altrimenti riprende a giocare, è stata malata di poker), invece gli altri buoni vini rossi. Si parla di Eric Clapton per la paura delle altezze, non per le musiche.

Nell’insieme la giornalista politica avvocata scrittrice Anne Holt ha pubblicato innumerevoli saggi e articoli no fiction e una ventina di romanzi, molto premiati in Norvegia, quelli delle tre serie principali tutti tradotti in italiano. Ci ha raccontato con competenza, cultura e poesia la Norvegia dell’ultimo trentennio, fatti noti e dinamiche sociali, intrattenendo i propri connazionali e milioni di lettori nel mondo, esprimendo opinioni e valori senza “parteggiare”, forse ispirando altri: un caso che l’eccelso autore nordico Leif GW Persson (1945), noto professore di criminologia che ha insegnato alla Scuola nazionale di polizia a Stoccolma ed è stato consulente del ministero di Giustizia e dei Servizi segreti svedesi, abbia chiamato Anna Holt (1960) l’erede del suo mitico personaggio Johansson (1943)? Da non perdere.

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