SOCIETÀ

Quando l’Italia risorse

Colpita duramente dalla pandemia, indebolita dalla crisi economia, l’Italia è a terra come mai è stata dalla fine dell’ultima guerra. E forse il peggio deve ancora arrivare. Per questo diventa particolarmente urgente pensare a nuove basi per ripartire; l’Europa, dopo un tentennamento iniziale, ha battuto diversi colpi: mancano però ancora un’analisi, una visione. E dove prendere ispirazione se non dal periodo in cui l’Europa, ridotta a un cumulo di macerie, riuscì in pochi anni (almeno nella parte occidentale) ad arrivare al benessere e alla democrazia?

“Rifondare su nuove basi l’ordinamento politico-istituzionale e l’assetto economico-sociale richiese uno sforzo enorme – spiega a Il Bo live Giovanni Luigi Fontana, docente di storia economica presso l’università di Padova –. Il periodo della ricostruzione, dal 1945 al ‘53, seguì alla più disastrosa recessione mondiale e alla guerra più sanguinosa e distruttiva fino ad allora conosciute. L’Italia, spaccata a metà ed immiserita, usciva da una dittatura e da una guerra civile. Ma la risposta delle classi dirigenti fu all’altezza delle sfide: le scelte di quegli anni determinarono il futuro della società economica, politica e civile del nostro Paese e diedero avvio al periodo di crescita economica più spettacolare che l’Italia abbia mai sperimentato”.

Come nacque il mito della ricostruzione? Quali furono i presupposti?

“Nella ripresa dell’Italia come di altri Paesi ebbero un ruolo decisivo i grandi cambiamenti del contesto internazionale. I nazionalismi, i protezionismi e gli isolazionismi del periodo tra le due guerre avevano prodotto recessione, disoccupazione di massa e una guerra catastrofica. Per questo, già durante il conflitto, gli Alleati avevano impostato le linee e gli organismi di un nuovo ordinamento economico mondiale fondato sulla cooperazione, l’integrazione e il dialogo tra le nazioni. Gli Stati Uniti assunsero il ruolo di guida stabilizzatrice dell’economia mondiale, uscendo dall’isolazionismo precedente. Il Piano Marshall (European Recovery Program – ERP) ebbe un impatto risolutivo: non solo fece arrivare dall’esterno gli aiuti necessari all’Europa, contribuendo in modo determinante all’ammodernamento dei sistemi di trasporto, delle attrezzature industriali e agricole, all’incremento della produttività e del commercio internazionale, ma fu anche alla base dell’attivazione di meccanismi di cooperazione economica tra tutti i Paesi europei. Il nuovo assetto mondiale si ridefinì su due principali sfere d’influenza: l’Italia scelse quella statunitense e si integrò nel sistema capitalistico occidentale. La Guerra Fredda indusse gli americani a guardare con favore a nuovi organismi di cooperazione intraeuropea come la Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (1951), una pietra miliare nel cammino verso l’integrazione europea”.

Come venne gestita la rinascita industriale ed economica del Paese?  

“I governi repubblicani italiani usarono gli aiuti americani puntando in primo luogo sullo sviluppo industriale. Il quadro internazionale era favorevole all’espansione dell’industria meccanica, uscita rafforzata dalla guerra e dal 1947 sostenuta dal Fondo Industrie Meccaniche. La siderurgia era più colpita, ma dotata di competenze tecnologiche e manageriali di primo livello. Le altre industrie, pur tra grandi difficoltà, avevano il potenziale per ripartire. La politica deflazionistica di Luigi Einaudi assicurò all’Italia la stabilità monetaria e permise decisioni politiche che segnarono la fine del periodo dell’emergenza. L’Iri attuò un’incisiva programmazione settoriale nel campo siderurgico e meccanico. Il settore dell’energia conobbe forti sviluppi grazie ai successi di Mattei prima con l’Agip e poi con l’Eni. Si aprì una stagione di riforme in diversi settori. Per fronteggiare la disoccupazione e i problemi del Meridione furono favorite l’occupazione nelle campagne e la formazione della piccola proprietà, vennero create l’Associazione per lo Sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno (Svimez) e la Cassa per il Mezzogiorno.

La politica insomma ebbe un ruolo centrale.

“La crescita e lo sviluppo economico divennero gli obiettivi centrali delle politiche economiche di tutti i governi occidentali. E la ripresa economica permise la creazione del welfare state. Le nazionalizzazioni diedero agli Stati il controllo in settori strategici delle economie nazionali. La scuola keynesiana fornì strumenti e tecniche per interventi miranti a favorire un maggiore orientamento sociale dell’economia di mercato, il pieno impiego e lo sviluppo dell’economia mista, negli anni di quella che sarà definita la golden age dell'economia mondiale”.

Dunque per gli anni ‘50-‘60 è corretto parlare di ‘miracolo economico’?

“Se guardiamo al tasso di crescita (in media superiore al 5% annuo in termini di Pil reale nei decenni ‘50 e ‘60), che collocava l’Italia tra i paesi più dinamici, e al tasso di investimento (superiore in media al 6% annuo) si può comprendere questa definizione. Fino al 1963 la super-crescita sfiorò il 6% annuo. L’industria, le costruzioni, le esportazioni e gli investimenti segnarono una crescita compresa tra il 9 e l’11% annuo. Ma occorre considerare anche gli aspetti qualitativi: la trasformazione strutturale dell’economia e della società che caratterizzò il nostro Paese, la straordinaria operazione di trasferimento di lavoratori da Sud a Nord, la creazione di capitale umano attraverso la scolarizzazione e l’istruzione tecnica. In questo periodo, il sistema economico italiano acquisì la sua definitiva fisionomia industriale. Un influsso certamente positivo venne esercitato dalla disponibilità di forza lavoro e dal suo costo contenuto. E i mercati internazionali erano molto aperti alle esportazioni italiane. L’unificazione del mercato europeo, con il Trattato di Roma del 1957, diede un impulso fondamentale all’espansione degli scambi. Con la Comunità Economica Europea, dal 1958 al 1969, il commercio fra i Paesi membri quadruplicò, beneficiando anche della crescita degli scambi mondiali”.

Fino al 1963 la super-crescita sfiorò il 6% annuo. L’industria, le costruzioni, le esportazioni e gli investimenti segnarono una crescita compresa tra il 9 e l’11%

La crescita però conobbe alti e bassi.

“Certo, ma l’Italia restò stabilmente nel gruppo dei paesi più dinamici. Tra il ‘63 e il ‘73 il tasso di incremento del reddito fu di un punto inferiore al decennio precedente. Il periodo fu segnato da rivendicazioni salariali (l’‘autunno caldo’ del 1969), inflazione, perdita di competitività nelle esportazioni, che richiesero interventi delle autorità monetarie. Ci furono però grandi avanzamenti sociali: i lavoratori videro riconosciuti i loro diritti (Statuto dei lavoratori del 1970), il sistema italiano di sicurezza sociale progredì notevolmente e venne istituito il Servizio Sanitario Nazionale (1978). Tuttavia, senza gli adeguamenti fiscali, rinviati nel tempo, la spesa pubblica cominciò ad impennarsi. La crisi internazionale petrolifera del ‘73, giunta in ritardo in Italia, determinò la maggiore caduta di reddito del periodo. In una situazione di cambi fluttuanti, l’Italia giocò sull’inflazione per riguadagnare competitività. Il rientro dall’inflazione avvenne grazie all’ingresso nel Sistema Monetario Europeo. L’Italia mantenne così, tra il 1973 e il 1980, un tasso di crescita medio del reddito nazionale del 3,7%, più basso di un punto rispetto al periodo precedente, ma superiore a quello di tutti i Paesi europei e degli Stati Uniti, e uguale a quello del Giappone”.

Una capacità di resilienza dell’Italia di fronte alle crisi e alle turbolenze?

“Nonostante la crescita sostenuta, rimanevano squilibri e nodi irrisolti. I primi anni ‘80 furono particolarmente difficili (seconda crisi petrolifera, effetti del terrorismo, difficoltà e ristrutturazioni delle grandi imprese, decentramento produttivo...), ma ci furono anche recuperi di produttività e una crescente affermazione della piccola impresa e dei distretti industriali della Terza Italia, oltreché dei servizi. Dopo un triennio di stagnazione, dal 1984 la crescita del reddito riprese ad un tasso del 3%, metà di quello degli anni del ‘miracolo’, ma sempre tra i più elevati in ambito internazionale. Sulle carenze strutturali venne però ad innestarsi la spirale del debito, generata inizialmente dal tentativo di creare domanda e occupazione mediante la spesa pubblica. Il debito divenne dominante dagli anni ‘90 in poi e non è più diminuito, salvo in qualche momento, prima dell’avvio dell’euro e intorno al 2005. La crisi del 2008 ha aggravato la condizione di un’economia che era già nel suo complesso stagnante. E quando ci si stava riportando al pre-2008 è arrivata la pandemia del Coronavirus…”.

Oggi con la crisi economica determinata dalla pandemia, che sembra averci colpiti con particolare durezza, siamo di nuovo a un punto di svolta.

“La ripartenza dopo questa pandemia non può essere equiparata alla ripresa dopo una guerra mondiale o dopo una crisi finanziaria. Ma dal confronto delle vicende passate con l’oggi possiamo comunque trarre importanti indicazioni. Dopo il 1945 e nei decenni successivi si ricostruì l’economia occidentale su basi nuove e aperte, diffondendo benessere e sicurezza sociale. L’Italia venne ricostruita economicamente e socialmente in un quadro di cooperazione internazionale regolato da una potenza-guida, gli Usa, mentre oggi non c’è una risposta globale e coordinata alla crisi. Assistiamo invece a una ‘guerra fredda’ tra Stati Uniti e Cina nel quadro di una ridefinizione degli equilibri geopolitici mondiali. Ma alla pax americana non si sostituirà una pax sinica. Il rischio, piuttosto, è di tornare agli anni ‘30 con disoccupazione di massa, nazionalismi ed autoritarismi”.

La pandemia segna una rottura epocale?

“Rimette in gioco tutto ed accelera tutti i processi: la de-globalizzazione già in atto da prima e il ritorno ai territori, la ridefinizione delle catene del valore e l’innovazione dei sistemi produttivi, il potenziamento delle infrastrutture materiali e immateriali. E poi ancora l’adozione di modelli di sviluppo sostenibili e rispettosi dell’ambiente; la diffusione di nuove tecnologie digitali che aumenteranno la produttività e cambieranno il lavoro, ma ridurranno anche l’occupazione da recuperare con nuove attività; la qualificazione del capitale umano e il crescente peso dell’istruzione, della cultura, della scienza e della ricerca. La riduzione delle disuguaglianze e l’adeguamento dei sistemi di sicurezza sociale e sanitaria; la revisione delle politiche fiscali e la lotta all’evasione; lo snellimento e il miglior funzionamento degli apparati burocratici”.

Alla pax americana non si sostituirà una pax sinica. Il rischio, piuttosto, è di tornare agli anni ‘30 con disoccupazione di massa, nazionalismi ed autoritarismi

Come si può far ripartire il Paese?

“Diventa anzitutto essenziale rilanciare l’idea dell’unità politica dell’Europa perseguita dai padri fondatori, superando le fratture tra Nord e Sud e tra Est e Ovest. Serve un deciso cambio di passo verso un’Europa unita al suo interno e protagonista della scena internazionale. Pensiamo agli investimenti pubblici, alle infrastrutture e alle riforme strutturali. O anche solo ai problemi di settori chiave come il commercio e il turismo. Dalla crisi del 2008 abbiamo tentato di uscire affidandoci alle esportazioni: proprio la componente economica più compromessa, insieme al turismo, dall’attuale crisi. L’Europa è un’ancora di salvezza anche di fronte all’indebolimento di molti dei rapporti commerciali preesistenti. Inoltre, oggi possiamo contare su una politica monetaria solida e coerente, che può evitare tensioni inflazionistiche che danneggerebbero i ceti medi”.

Cosa possiamo imparare dalla nostra storia?

“Che nelle grandi cesure storiche sono indispensabili chiarezza nelle analisi e nelle strategie, progettualità, visione del futuro, convergenza e impegno collettivo sugli obiettivi. Abbiamo bisogno di leader competenti, coraggiosi e lungimiranti, capaci di mobilitare le energie e attuare le riforme di cui il Paese ha assoluta necessità. E di ‘cittadini-rematori’, che spingano concordemente la nave fuori dalla tempesta”.

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