SOCIETÀ
Quante persone abiteranno la Terra nel 2100? La difficoltà delle previsioni a lungo termine
Quanti abitanti avrà la Terra nel 2100? Rispondere a questa domanda, cercando di prevedere che dimensione avrà la popolazione alla fine del secolo, è un compito strategico che vede impegnati molti gruppi di demografi di tutto il mondo. Le stime proposte dai ricercatori sono infatti un elemento molto rilevante per tutte le attività di pianificazione compiute dai governi che, ad esempio, hanno bisogno di sapere quali potranno essere le entrate fiscali a medio-lungo termine, quali investimenti in infrastrutture, abitazioni e trasporti serviranno o di quanto sarà necessario potenziare i servizi sanitari. E anche le grandi sfide internazionali, a partire dall’obiettivo di combattere il cambiamento climatico e ridurre le emissioni di gas serra, non possono prescindere da valutazioni quantitative sul numero di persone che abiteranno il pianeta in un dato momento. Ed è altrettanto importante che il consumo di suolo sia allineato alla crescita demografica reale, come peraltro previsto dagli obiettivi dell'Unione europea e delle Nazioni unite.
Dopo gli approfondimenti che Il Bo Live ha realizzato in occasione del convegno internazionale New data for new challenges of population and society, organizzato dal Dipartimento di Scienze Statistiche dell’Università di Padova, torniamo così ad occuparci di demografia e lo facciamo partendo da uno spunto lanciato dalla rivista Nature che recentemente si è soffermata sulle difficoltà delle previsioni a lungo termine e su come le stime proposte dagli esperti dell’Onu siano state messe in discussione da gruppi alternativi che prevedono scenari differenti.
Secondo l’Organizzazione mondiale delle nazioni unite, le cui previsioni in passato sono risultate abbastanza fedeli alla realtà, la popolazione raggiungerà i 10,9 miliardi di persone entro la fine del secolo. La stima è contenuta nell’ultimo rapporto, a cadenza biennale, pubblicato nel 2019. Il documento successivo era atteso per il 2021 ma è stato posticipato al 2022. I numeri elaborati dall’Onu non combaciano però con quelli a cui sono giunti altri gruppi di esperti, facenti capo all’International Institute for Applied Systems Analysis (IIASA) di Vienna e all’Institute for Health Metrics and Evaluation (IHME) dell'università di Washington a Seattle, che sono invece concordi (seppur con lievi differenze tra le stime proposte dai due team) nel sostenere che la popolazione globale raggiungerà i 9,7 miliardi entro il 2070 e poi diminuirà. Il picco, insomma, arriverebbe prima ma sarebbe più contenuto e ad esso inizierebbe poi a far seguito un calo della popolazione mondiale.
Non è la prima volta che le stime dell'Onu sulla crescita della popolazione mondiale vengono messe in discussione da altri lavori scientifici che tendono a rivederle al ribasso. Lo scorso anno, infatti, sulla rivista The Lancet era stato pubblicato un articolo, firmato proprio da 23 studiosi dell'università di Washington, che aveva ribaltato la visione che spesso accompagna le discussioni sulla crescita demografica. Per questi autori il rischio che si profila all'orizzonte non è il sovrappopolamento del pianeta, con tutte le temute conseguenze in termini di scarsità di risorse e impatto sull'ambiente, ma il declino a cui, tra circa una quarantina di anni, andrebbero incontro molte aree del mondo. In ben 183 Paesi su 195 le nascite non saranno sufficienti per garantire il ricambio della popolazione che, come è noto, necessita di un tasso di fertilità di circa 2.1 figli per donna.
Si tratta naturalmente di valutazioni teoriche perché sull'andamento demografico hanno un impatto anche fattori come la riduzione o l'aumento della mortalità e i flussi migratori. Tuttavia i risultati di questo studio fanno riflettere, soprattutto perché sottolineano come alcuni Paesi potrebbero vedere addirittura dimezzata la propria popolazione. E' questo lo scenario che gli studiosi prevedono anche per l'Italia, che si è avviata verso l'inverno demografico: il picco di 61 milioni di abitanti raggiunto nel 2014 è ormai alle spalle, la natalità continua a diminuire e nel 2100 la popolazione potrebbe crollare a 30,5 milioni di persone. Un'implosione che avrebbe preoccupanti conseguenze economiche.
Affrontiamo l'argomento dell'incertezza sull'evoluzione demografica del nostro pianeta insieme al professor Gianpiero Dalla Zuanna, del dipartimento di Scienze statistiche dell'università di Padova, per capire perché le previsioni a lungo termine sono complesse, con quali metodi i diversi gruppi di esperti arrivano a produrre le loro stime e se esiste un punto di equilibrio ottimale, quella Goldilocks zone con cui i governi cercano di mantenere i numeri della popolazione entro livelli che garantiscono un futuro finanziario stabile. E nelle riflessioni non può mancare uno sguardo all'impatto della pandemia sulle nascite, alla luce del significativo calo che si è registrato in molti Paesi ad alto reddito.
L'intervista completa al professor Gianpiero Dalla Zuanna, del dipartimento di Scienze statistiche dell'università di Padova. Servizio e montaggio di Barbara Paknazar
Tutte le stime della popolazione iniziano dai conteggi di quante persone vivono attualmente in ogni Paese. In altre parole, si parte dal censimento. Una pratica adottata già intorno al 4000 a.C. dai babilonesi per cercare di calcolare la quantità di cibo di cui avevano bisogno per sfamare la loro gente e realizzata in modo regolare anche nelle antiche società egiziane, romane e cinesi.
La base è dunque una fotografia del presente. Per elaborare le proiezioni sul futuro i parametri decisivi sono tre: il tasso di fecondità, vale a dire il numero di bambini partorito in media da ogni donna, il tasso di mortalità e quello relativo alle migrazioni. Ed estendendo l'orizzonte temporale i margini di incertezza aumentano significativamente. "Per i demografi, le proiezioni sui prossimi 20-30 anni sono generalmente considerate molto buone perché la maggior parte delle persone che vivranno tra qualche decennio sono già nate. E i tassi di natalità, morte e migrazione sono abbastanza facili da estrapolare in quel periodo dalle tendenze recenti", ricorda David Adam su Nature. Tuttavia anche le previsioni a breve e medio termine rimangono vulnerabili agli shock (come la pandemia da Covid-19 che oltre ad aver indotto molte coppie a ritardare il progetto di diventare genitori o di allargare la famiglia ha inciso negativamente anche sulla riduzione dell'aspettativa di vita).
Guardando poi sul lungo termine le previsioni in demografia, come in altri ambiti della scienza, sono estremamente complicate e l'attendibilità può essere diversa a seconda dell'ambito di applicazione. Il professor Dalla Zuanna chiarisce meglio il concetto: "è più semplice, ad esempio, che risulti più azzeccata qualche previsione a lungo termine quando parliamo di mortalità. Questo per il semplice motivo che tendenzialmente nel medio-lungo periodo i livelli di mortalità sono diminuiti fortemente, anche se negli anni ’60 e ’70 pochissimi avevano previsto il grande calo di mortalità che c’è stato a partire dagli anni ’80 in avanti".
Il problema, spiega il docente, è che noi tendiamo a prevedere guardando sempre a quello che è successo nel passato ma quando ci sono dei punti di rottura questo meccanismo è molto più complicato. "Pensiamo ad esempio chi avrebbe potuto prevedere nel ‘700 quello che è accaduto poi nel sistema di trasporti, dove ci sono state delle invenzioni che hanno sconvolto tutto. Sulla mortalità è accaduta una cosa simile con l’introduzione degli antibiotici: i due grandi matematici e statistici De Finetti e Gini negli anni ’20 in Italia hanno elaborato delle previsioni sull’andamento della mortalità che sono risultate ottime fino all’inizio degli anni ’50. Applicate al periodo successivo queste previsioni non si sono dimostrate ugualmente attendibili proprio perché i due studiosi non potevano immaginare che sarebbero arrivati questi farmaci così dirimenti rispetto alle malattie infettive", osserva il professor Dalla Zuanna.
I diversi metodi usati dai demografi
Come abbiamo già sottolineato, i diversi gruppi di ricerca iniziano dalla stessa base di partenza che è rappresentata dai censimenti periodici della popolazione. Le differenze, anche consistenti, emerse dalle stime che provano a immaginare cosa accadrà alla fine del secolo dipendono anche dai diversi approcci con cui vengono elaborate le previsioni, oltre naturalmente ad una "fisiologica" incertezza che si inserisce in ogni sguardo a lungo termine.
I principali metodi utilizzati sono tre e sono quelli richiamati anche nell'articolo di Nature. "Il primo è quello più classico - entra nel merito il professor Gianpiero Dalla Zuanna - e consiste nel prevedere le serie future proiettando le tendenze del passato. Si possono usare tante metodologie per farlo, più o meno sofisticate, ma il concetto di fondo rimane lo stesso: si guarda quello che è accaduto nel passato, analizzando ad esempio cosa è accaduto nei Paesi in cui un certo cambiamento è avvenuto prima e si ipotizzano andamenti simili. Questo approccio si fonda sull'uso di serie storiche e sono tecniche che possono consentire non solo di arrivare a fornire stime puntuali ma anche intervalli nelle stime, come fa l’Istat adesso".
Questo primo metodo è quello che caratterizza l'approccio dei demografi delle Nazioni unite e, aggiunge il docente di Scienze statistiche dell'università di Padova, è quello che tradizionalmente viene insegnato agli studenti. Scendendo più nel dettaglio i modellisti dell'Onu valutano i cambiamenti nel tasso di natalità avvenuti negli ultimi anni in ogni Paese e sulla base di questi dati producono oltre 100.000 opzioni di possibili andamenti della fecondità futura per ciascuna nazione. Il passo successivo è calcolare la mediana di queste previsioni e presentarla come lo scenario più probabile.
"Il secondo metodo - continua Dalla Zuanna - consiste in un approccio abbastanza diverso e si basa sul coinvolgimento degli esperti. Siccome il problema grosso è capire gli andamenti di natalità, mortalità e migrazioni, che sono le tre grandi componenti della demografia, si può chiedere una valutazione a un pool di esperti, meglio ancora se di diverse discipline. Poi occorre prendere queste cento o duecento previsioni e realizzare una specie di sintesi, ponendosi sul livello mediano oppure costruendo degli intervalli". Ad aver preferito questo metodo sono stati i demografi del gruppo IIASA che hanno chiesto a circa 200 ricercatori, tra economisti, demografi e sociologi, di prevedere i tassi di fertilità per i singoli Paesi nel 2030 e nel 2050, sulla base di quello che pensavano sarebbe potuto accadere in termini sociali, sanitari ed economici. Alcune di queste stime hanno mostrato un elevato livello di variabilità ma nell'insieme portano a prevedere tassi di fertilità molto più bassi rispetto a quelli calcolati dalle Nazioni unite, anche in aree del mondo come l'India o l'Africa subsahariana.
Il terzo metodo è quello utilizzato dagli studiosi dell'IHME che l'anno scorso hanno pubblicato i loro risultati su The Lancet. "Il loro approccio - analizza Dalla Zuanna - è più simile a quello degli economisti per il modo in cui vengono trattate alcune variabili. In particolare per la previsione della fecondità, che è la variabile più delicata, affermano che è legata all’andamento dell’istruzione e alla disponibilità di sistemi di contraccezione. Le stime si soffermano soprattutto sui Paesi in via di sviluppo e concludono che l’aumento dell’istruzione e la maggiore possibilità di accedere alla contraccezione determinano un calo delle nascite". In particolare, i ricercatori dell'IHME hanno utilizzato una variabile chiamata CC50 che conta il numero di figli avuto da ogni donna entro il compimento dei 50 anni. È leggermente diverso dal tasso di fecondità complessivo perché è meno sensibile all'età in cui le donne hanno i loro figli e non mostra lo stesso effetto di rimbalzo quando la fertilità scende a livelli bassi. Invece di fare affidamento su dati e tendenze passate il team statunitense ha effettuato le sue previsioni focalizzandosi sulla relazione tra CC50 e i suoi due principali driver, individuati nel livello di istruzione e nella contraccezione.
"Con queste impostazione, non esente da critiche da parte di chi usa gli altri metodi, i ricercatori sono arrivati a risultati molto diversi rispetto a quelli proposti dalle Nazioni unite e da un punto di vista scientifico è l’approccio più interessante perché dietro ha un’idea comportamentale. Negli altri due metodi il peso non è tanto su alcune variabili che determinano il comportamento ma su un filtro legato o al passato o alla valutazione degli esperti che filtrano la loro percezione del passato e la proiettano sul futuro", osserva Gianpiero Dalla Zuanna.
L'impatto della pandemia sulle nascite
Ad incidere sull'andamento delle nascite possono essere anche situazioni di shock e non vi è dubbio che l'irrompere della pandemia da Covid-19 abbia avuto un impatto, almeno a breve termine. E' un argomento che abbiamo approfondito in diverse occasioni su Il Bo Live soffermandoci anche su uno studio, condotto da un gruppo di demografi dell'università Bocconi di Milano e pubblicato recentemente su Pnas, che ha messo in evidenza come in molti Paesi ad alto reddito i tassi di fecondità siano in diminuzione e come l'intensità di questo calo sia strettamente legata alla robustezza o meno di sistemi di welfare. A confermare la tendenza è anche un preprint, firmato dal ricercatore dell'Istituto di demografia di Vienna Tomáš Sobotka e da altri colleghi, che riporta i dati di 17 Paesi in Europa, Asia e Stati Uniti mostrando che il numero di nascite è diminuito - in media del 5,1% a novembre 2020, del 6,5% a dicembre 2020 e dell'8,9% a gennaio 2021, rispetto agli stessi mesi dell'anno precedente. Alcuni esperti adesso prevedono che le nascite riprenderanno a salire ma bisognerà vedere quale sarà l'entità del recupero.
"Si è assistito a un declino dei concepimenti nel periodo del lockdown della primavera 2020 e anche in corrispondenza della seconda ondata pandemica avvenuta in autunno. Questo è un altro filone di studi e ha l’obiettivo di ragionare sul comportamento delle persone andando a vedere cosa è accaduto durante le grandi pandemie del passato o i grandi sconvolgimenti legati a conflitti bellici. In queste circostanze tradizionalmente si osservava poi una ripresa molto sostenuta dei concepimenti e dei matrimoni, anche delle seconde nozze quando le persone erano rimaste vedove a causa del decesso del partner. Adesso non ci troviamo davanti a una pandemia così devastante che abbia sconvolto la fasce di persone in età adulta in quanto sappiamo che questo virus ha avuto le conseguenze più drammatiche soprattutto sugli anziani. Però la condizione di incertezza che ha colpito molte coppie ha indotto a rinviarei progetti di concepimento. Immagino che ci sarà un rimbalzo e lo abbiamo osservato anche noi analizzando i dati sulle province italiane, però attendiamo di poterlo misurare più accuratamente. Non è detto che il recupero possa essere completo oppure può mescolarsi con un effetto di spinta dovuto a una ripresa economica che sembra essere vivace. E’ sempre difficile distinguere tra un discorso comportamentale delle persone, legato alla propria vita intima e di coppia, e gli stimoli che possono arrivare dall’esterno", commenta il professore del dipartimento di Scienze statistiche dell'università di Padova.
La situazione italiana
Restringendo lo sguardo sull'Italia la criticità della piramide demografica del nostro Paese è nota da tempo. Il presidente dell'Istat Gian Carlo Blangiardo ha definito altamente verosimile la possibilità che nel 2021 le nascite scendano sotto quota 400 mila unità e ha confermato che "è legittimo ipotizzare che il clima di paura e incertezza e le crescenti difficoltà di natura materiale generate dai recenti avvenimenti abbiano avuto e continuino ad avere un’influenza negativa sulle scelte di fecondità delle coppie italiane".
Il basso tasso di fecondità che caratterizza l'Italia ha comunque radici temporali lontane e il professor Dalla Zuanna ricorda che dalla fine degli anni ’70 non ha mai superato quota 1.5 figli per donna. Oggi siamo intorno a 1.3, un valore che si attesta tra i più bassi del mondo.
"Questo fa capire che si tratta di una dinamica molto strutturale", commenta al riguardo il docente che prosegue poi analizzando le possibili ragioni del fenomeno. "Sotto questo aspetto l’Italia assomiglia ad altri Paesi, in particolare a quelli della sponda Nord del Mediterraneo, come la Spagna e la Grecia, e ai Paesi dell’estremo oriente come il Giappone, le grandi aree urbane della Cina ma adesso anche Singapore e alcune zone della Thailandia e del Vietnam. Dietro a questo tipo di comportamento delle coppie c'è un tipo di struttura della società fortemente basata sulla famiglia. Può sembrare paradossale ma nelle società in cui i legami tra le generazioni sono più strette i genitori, proprio perché si sentono responsabili del futuro dei loro figli, puntano ad averne pochi per poter dare loro il massimo. Al contrario in Nord Europa e negli Stati Uniti la fecondità è più alta. Sono Paesi in cui il legame tra le generazioni è più debole: naturalmente non vuol dire che i genitori vogliano meno bene ai figli, ma il futuro dei figli dipende meno dai genitori".
E in un'intervista realizzata da Elisabetta Tola per Il Bo Live anche Tomáš Sobotka, soffermandosi sui fattori culturali che possono influire sulle scelte riproduttive, aveva fatto notare come nelle società che sono evolute verso un modello di parità di genere maggiore, come quelle del Nord Europa, il tasso di natalità è più alto rispetto a quelle dove spetta solo o principalmente alla donna occuparsi dei figli. Al contrario, in società ricche ma non particolarmente paritarie, come il Giappone, quella di non sposarsi e non fare figli può invece diventare una scelta quasi forzata per le donne che desiderano realizzare le proprie aspirazioni professionali.
Tornando nello specifico alla situazione italiana Dalla Zuanna puntualizza inoltre che in passato fattori come il grosso calo della mortalità, la forte spinta migratoria e il fatto che negli ultimi anni erano diventati genitori i figli del baby boom, che erano molto numerosi, avevano consentito al nostro Paese di veder crescere la sua popolazione, malgrado 40 anni di bassa fecondità. "Il futuro però - precisa il professore del dipartimento di Scienze statistiche dell'università di Padova - non sarà probabilmente così perché abbiamo esaurito la spinta del baby boom e le donne nate tra gli anni ’60 e ’70 non hanno più l’età adatta per avere figli. In secondo luogo anche la spinta delle immigrazioni si è molto ridotta".
E' possibile contenere l'impatto sul pianeta da parte di una popolazione in crescita?
Oggi la popolazione mondiale sfiora i 7,9 miliardi e davanti alla prospettiva che nell'arco di pochi decenni si aggiungano altri due miliardi di persone può sembrare bizzarro preoccuparsi del calo della fecondità. Il punto, come ha ricordato Sobotka nell'intervista rilasciata al nostro giornate, è però che le comunità tendono a essere assai più focalizzate su quello che accade in prossimità: la bassa natalità, che pure potrebbe avere risvolti non negativi in termini di impatto sul pianeta nel suo complesso, porta necessariamente a cambiamenti strutturali piuttosto consistenti in una determinata società. Se la compensazione dei flussi di migrazione non è sufficiente il rischio è un forte impoverimento di persone e di risorse e una conseguente maggiore fragilità delle reti di protezione a favore delle fasce di popolazione più fragili.
Secondo Gianpiero Dalla Zuanna quando si parla di crescita demografica globale bisogna comunque "evitare di dare messaggi eccessivamente preoccupanti" e il docente conclude sottolineando come il progresso scientifico e tecnologico possano contribuire efficacemente nel dare risposta alle esigenze di un numero sempre maggiore di persone.
"In una cinquantina di anni siamo passati da 4 a oltre 7 miliardi di persone e mediamente le condizioni delle popolazioni sono migliorate, sebbene ci siano ancora Paesi molto poveri. Finora il progresso tecnologico, l’aumento della capacità di produrre cibo ed energia sono stati superiori all’incremento della popolazione. Nulla ci dice che in futuro le cose non debbano andare nello stesso modo. Anche se naturalmente la grande sfida sarà riuscire a garantire cibo e una vita dignitosa a 9 miliardi di persone senza aggravare il surriscaldamento del clima. Credo che abbiamo tutte le capacità tecnologiche per raggiungere questo obiettivo ma bisogna vedere se culturalmente siamo in grado di farlo e non dobbiamo mai dimenticare che la Terra è una sola. Non spaventiamoci davanti ai numeri: in Italia oggi vivono il doppio delle persone rispetto a un secolo e mezzo fa eppure le condizioni sono infinitamente migliorate sotto tanti punti di vista, a partire dalla salute. La crescita demografica può essere vista come un fattore di sviluppo e non come un ostacolo", osserva Dalla Zuanna.