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Quanto ci fa bene l'allenamento fisico? La risposta è anche nelle nostre proteine

A chi fa bene la ginnastica? A tutti, è bene dirlo. Eppure esistono differenze individuali nel modo in cui il corpo di ognuno di noi risponde all'allenamento. Persone diverse, pur seguendo lo stesso programma di esercizi, possono sperimentare effetti diversi sulla loro forma fisica. Non sono ancora conosciuti tutti i fattori biologici che determinano queste differenze, ma un gruppo di di ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center di Boston ha cercato di scoprirlo in un recente studio pubblicato su Nature Metabolism.

Gli studiosi, guidati da Robert Gerszten, capo della divisione di medicina cardiovascolare della struttura, hanno analizzato circa 5000 proteine presenti nel sangue umano con lo scopo di individuare dei biomarcatori associati al livello di forma fisica che è possibile raggiungere da una persona a seconda delle sue caratteristiche biologiche individuali.

Più nel dettaglio, Gerszten e il suo team hanno identificato 147 proteine i cui livelli contribuiscono a determinare l'idoneità cardiorespiratoria di un individuo, ovvero la sua capacità di base di assorbire l'ossigeno, e 102 i cui livelli aiutano a prevedere il potenziale di miglioramento di questa capacità in seguito all'allenamento. Alcune di queste non erano mai state associate, fino ad ora, alla risposta del corpo all'attività fisica.

Gli autori dello studio hanno raccolto quindi dei campioni ematici da 650 adulti sani e sedentari ai quali è stato chiesto poi di sottoporsi allo stesso programma di esercizi, della durata di 20 settimane. Hanno osservato che alcune persone traevano maggior beneficio dall'allenamento rispetto ad altre, e che queste diverse risposte erano correlate ai livelli di alcune proteine presenti nel loro sangue.

Per comprendere meglio i risultati di questo studio abbiamo chiesto un commento al professor Andrea Ermolao, direttore dell’unità operativa complessa di Medicina dello sport dell’azienda ospedaliera di Padova e della scuola di specializzazione in Medicina dello sport e dell'esercizio fisico dell'università di Padova.

L'intervista completa ad Andrea Ermolao, direttore dell’unità operativa complessa di Medicina dello sport dell'Azienda ospedaliera di Padova. Montaggio di Barbara Paknazar

“Questo lavoro è molto interessante e fa parte di una serie di studi svolti attualmente per comprendere meglio il fitness cardiorspiratorio attraverso la misurazione del massimo consumo di ossigeno”, spiega il professor Ermolao. “Si tratta di un misura che serve a identificare la quantità massima di ossigeno che è in grado di utilizzare il nostro corpo durante un esercizio fisico. È un parametro integrato del funzionamento del nostro organismo che dipende non solo dalla ventilazione e dagli scambi a livello polmonare, ma anche dal trasporto dell'ossigeno attraverso il sangue grazie alla pompa cardiaca e dalla distribuzione periferica grazie ai vasi sanguigni. Il consumo massimo di ossigeno è inoltre un forte predittore di mortalità ed anche correlato allo sviluppo di determinate patologie: quanto più elevato è questo valore, tanto minore è il nostro rischio di mortalità.

Questo parametro si distribuisce nella popolazione in maniera molto variabile. Si differenzia, ad esempio, a seconda dell'età e del genere, ma anche la componente ereditaria può essere determinante. Inoltre, come tutte le variabili biologiche, si distribuisce nella popolazione secondo una curva gaussiana.

Gli autori dello studio in questione volevano quindi comprendere quali sono le cause che determinano il massimo livello di ossigeno e da cosa dipendono le modifiche a questo valore in seguito all'attività fisica. In altre parole, la domanda da cui sono partiti era questa: se persone diverse si sottopongono allo stesso allenamento, perché alcune migliorano e altri no?

Mediamente tutti i partecipanti all'esperimento hanno beneficiato dell'allenamento, ma ci sono state delle differenze individuali nel modo in cui i loro organismi hanno reagito a queste sedute di esercizi. “Dopo 20 settimane di allenamento, i ricercatori hanno registrato un miglioramento medio del massimo consumo di ossigeno del 16%, ma hanno notato anche che alcuni soggetti miglioravano in modo più significativo rispetto ad altri”, continua il professor Ermolao.

Gli autori dello studio hanno utilizzato un approccio proteomico per spiegare questi risultati. “La proteomica è quella disciplina biologica che studia le proteine similari su larga scala. Prende quindi in esame la qualità, la quantità e i tempi in cui vengono espresse le proteine dalle cellule dell'organismo in seguito a un determinato stimolo, che in questo caso era l'allenamento”, chiarisce il professor Ermolao. “Hanno valutato, a partire dall'analisi di 5000 proteine, quali tra queste fossero correlate al livello di fitness di base nei soggetti sedentari, individuandone 147. Ne hanno poi identificate 102 correlate alla variazione del massimo consumo di ossigeno. Questo significa che chi trae maggiori benefici dall'allenamento ha mediamente dei migliori livelli di queste 102 proteine, alcune delle quali sono delle ossa, altre del muscolo e altre del sistema cardiovascolare. Per certi aspetti, quindi, questo studio ha anche dei risvolti interessanti di ricerca a sostegno della teoria emergente del cross-talk, secondo la quale il tessuto osseo contribuisce agli adattamenti del corpo legati all'esercizio.

Dai risultati dello studio emerge anche un altro dato significativo: non c'è una grossa sovrapposizione tra le proteine che determinano il livello di fitness di base e quelle associate alla possibilità di miglioramento ottenibile dall'attività fisica. Non è detto, quindi, che chi ha una buona forma fisica di partenza risponda bene al training. Viceversa, chi ha un livello di fitness scadente potrebbe anche essere molto allenabile.

I ricercatori hanno anche confrontato i livelli di queste proteine chiave con alcuni parametri clinici. Sono quindi riusciti a predire chi sarebbe riuscito a migliorare il suo massimo consumo di ossigeno, e quindi il livello di fitness, e chi no. Si tratta di un aspetto importante, perché oggi l'esercizio viene spesso considerato una vera e propria terapia, e perciò è utile sapere chi è in grado di rispondere meglio e chi no”.

In futuro, quindi, potremmo essere in grado di prevedere, almeno in parte, il livello di forma fisica raggiungibile da un individuo a partire dall'analisi del suo profilo clinico. Siamo ancora lontani da questo obiettivo, ma studi come questo permettono di fare passi avanti in questa direzione.

“I risultati dello studio sono limitati a un training di tipo aerobico della durata di 20 settimane, ma si potrebbero utilizzare anche altri programmi di allenamento, come ad esempio uno di forza o ad alta intensità”, commenta il professor Ermolao. “I risultati di questo studio ci permettono di avvicinarci a un approccio all'esercizio fisico teilored, o “su misura” , cioè alla possibilità che in futuro potremmo essere in grado di determinare se una singola persona, in base al suo assetto proteico o genomico, sia in grado di rispondere meglio ad alcuni tipi di esercizi rispetto ad altri, e quando sia necessario utilizzare determinati strumenti farmacologici o consigliare stili di vita che possano aiutarla a migliorare il suo livello di fitness. Questo approccio nasce dall'osservazione che non tutti rispondono al training fisico allo stesso modo. Se è vero che mediamente la popolazione migliora grazie all'esercizio, come per esempio quello anaerobico, è anche vero che alcuni non sembrano rispondere significativamente. Riuscire a capire il perché ci permetterà di valutare quando sia il caso di cambiare esercizio oppure sostituirlo con dei farmaci”.

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