UNIVERSITÀ E SCUOLA

Quanto pesa la povertà educativa sul futuro delle nuove generazioni?

Li chiamano ‘i figli della crisi’. Sono quei cinque milioni di italiani che oggi vivono in povertà assoluta, senza essere in grado cioè di acquistare ogni mese i beni essenziali per vivere in modo accettabile, a cui si aggiungono dieci milioni di poveri cosiddetti ‘relativi’, persone che vivono cioè con una spesa media mensile pari o inferiore a una determinata cifra (stabilita da economisti e statistici). Lo comunica l’ultimo rapporto dell’Istat sulla povertà in Italia che raccoglie i dati relativi al 2017 e che racconta come la povertà colpisca maggiormente chi vive a  sud e gli stranieri. Numeri preoccupanti riguardano anche i minori; sono oltre un milione infatti, quelli che nel nostro Paese vivono in povertà assoluta, il 12% del totale. A questo fattore, da cui generalmente i giovani faticano a riscattarsi anche diventando grandi, ne è fortemente connesso un altro, quello relativo alla povertà educativa. I due elementi si alimentano reciprocamente, sono consequenziali e si trasmettono di generazione in generazione. 

Per povertà educativa si intende quel ‘processo che limita il diritto dei minori a un’educazione’ (diritto fondamentale ribadito anche dalla Convenzione ONU sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza del 1989)  e ‘che li priva dell’opportunità di ‘apprendere, sperimentare, sviluppare e far fiorire liberamente capacità, talenti e aspirazioni’. La povertà educativa si manifesta ‘nella privazione delle competenze cognitive, così fondamentali per crescere e vivere nella società contemporanea dell’innovazione e della conoscenza e si traduce anche in una povertà di competenze cosiddette non-cognitive, quali lo sviluppo delle capacità emotive, di relazione con gli altri, di scoperta di se stessi e del mondo’.

Secondo il rapporto 2018 “Il Veneto si racconta, il Veneto si confronta” dell'Ufficio statistico della Regione, così come in Italia, anche nel Nord-est la povertà educativa è in peggioramento.

 

Luogo di nascita, genere, status socio economico della famiglia e background migratorio sono fattori che ancora oggi in Italia influenzano in modo importante l’abbandono scolastico.

Chi lascia prematuramente la scuola, inoltre, ha maggiori possibilità di restare disoccupato o di essere impiegato in lavori poco qualificati e sottopagati. In Italia i giovani che tra i 18 e i 24 anni lasciano gli studi senza terminarli, provengono per lo più dal sud dove si vivono anche le condizioni più difficili quanto a disoccupazione, reddito e povertà. In Sicilia e Sardegna il tasso di abbandono scolastico è pari al 21% (la media italiana è del 14%) mentre in Veneto è del 10,5%, un tasso vicino a quello previsto dall’obiettivo Europa 2020 del 10%.

“Anche in altre regioni italiane, come ad esempio la Valle d’Aosta, - spiega Silvia Carbone, docente di sociologia dell’educazione all’università di Padova – la dispersione scolastica è alta e questo dipende, al contrario, dalle molte possibilità lavorative che il territorio offre. Se a sud generalmente si va prima a lavorare per aiutare le famiglie, in altre regioni capita che si lasci la scuola prima di terminarla perché l’offerta di lavoro è molto ricca. Resta il fatto che la scuola ha un ruolo chiave nello sviluppo del futuro delle nuove generazioni e dovrebbe collocarsi come nodo all’interno di una rete  - continua Carbone – creando una sinergia con le famiglie e il territorio, proponendo maggiore comunicazione e affiancandosi alle famiglie quando vi siano situazioni difficili. E questo dovrebbe essere fatto calandosi nella dimensione di ogni singolo contesto, analizzando le caratteristiche e le necessità di ciascun territorio, non solo a livello generale-nazionale”.

Secondo gli ultimi dati Ocse l’Italia è tra i Paesi europei che investono meno nel settore dell'istruzione destinandovi il 4% del Pil rispetto a una media di circa il 5% con punte, per Paesi come la Danimarca, che arrivano anche al 7%; ed è anche uno dei Paesi europei che, a parità di ore lavorate e di numero di studenti per classe, riserva ai docenti gli stipendi più bassi.

Ma l’educazione non la fa solo la scuola. Frequentare teatri, mostre, musei, concerti, fare sport, leggere e usare internet sono attività considerate non solo hobby, ma anche mezzi importanti per rafforzare le capacità non cognitive, in particolare la motivazione, la curiosità, le aspirazioni personali. E anche in questo senso i dati non sono rassicuranti.

In Veneto sette giovani su dieci tra i 14 e i 29 anni non leggono libri (oltre un quinto di loro afferma di non possederne in casa o di averne molto pochi) e il 65% non legge neanche quotidiani. Per quanto riguarda le attività ricreative, invece, quelle extrascolastiche sono quasi totalmente sconosciute. Nel 2018 il 76% non è mai andato a teatro, il 64% non ha mai visitato un sito archeologico, il 59% non ha mai partecipato a eventi sportivi, il 56% non è mai andato a un concerto e il 49% non è mai stato a visitare un museo o una mostra. E per quanto riguarda lo sport, il 42% dei ragazzi non lo pratica mai, neanche saltuariamente. “E’ impensabile oggi – continua la docente - che lo Stato si sostituisca laddove le famiglie o gli altri settori mancano. Il terzo settore è un interlocutore fondamentale e la scuola ha il dovere di fare da tramite, facendo conoscere ai ragazzi le tante possibilità che ci sono anche al di fuori dall’ambiente scolastico, dalle attività ricreative, al volontariato, uscendo dalla dimensione prettamente didattica scolastica; solo così è possibile far acquisire ai giovani una formazione identitaria autonoma  indispensabile nella vita di ogni giorno”.

 

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