CULTURA

Quell'amore per il Giappone, anche nei romanzi

Quel che affidiamo al vento, il quarto libro di Laura Imai Messina (Piemme, 2020) è andato in classifica immediatamente, e ben in alto, appena uscito. In questi giorni è anche stato candidato al Premio Strega da Lia Levi. Cosa questo significhi non è in realtà così facilmente delineabile: le ragioni del successo letterario a volte sono insondabili, certo è che si tratta di un romanzo che piace, e lo fa trasversalmente.

Piace probabilmente perché, derivando il termine dall’arte, siamo un po’ tutti affetti da giapponismo e i romanzi di Imai Messina lì sono ambientati e quello è il mondo in cui ci introducono. Facciamoci caso: il Giappone ci affascina un po’ tutti, la sua cucina è entrata nelle nostre abitudini, molti ragazzi ne studiano la lingua (si osservi in treno: in mezzo ai manuali di ingegneria o di filologia romanza, aperti sulle ginocchia dei pendolari, ci sono quelli di giapponese), applichiamo il celeberrimo metodo “Marie Kondo” per riordinare le nostre case (e, per estensione, le nostre vite), usiamo termini giapponesi per indicare fenomeni particolari (per restare in tema di libri lo tsundoku ne è l’accumulo compulsivo), leggiamo Murakami forse più di quanto non leggiamo Pavese, o Piperno.

E Laura Imai Messina con i suoi libri ci avvicina al Giappone, paese in cui vive da una quindicina d’anni e di cui porta le tracce anche nel nome (Imai è il cognome del marito che ha dovuto prendere, così lui quello di lei, perché anche i figli potessero ereditare il cognome Messina), cosa che fa da un paio di lustri anche attraverso il suo seguitissimo blog Giappone mon amour.

Ma Quel che affidiamo al vento, romanzo che ha tutti i personaggi giapponesi diversamente da quanto accadeva nei precedenti, in cui qualche italiano c’era sempre e che sarà il primo, dei suoi, a essere tradotto in giapponese (con grande soddisfazione dell’autrice: “quando l’ho saputo ho pianto”), non piace solo per questo.

La storia è toccante: gira intorno al cosiddetto Telefono del Vento nel giardino di Bell Gardia, a Iwate, sulla Montagna della Balena dove Sasaki Itaru (nel mondo reale, non nella finzione narrativa) ha messo una cabina telefonica aperta a tutti quelli che sentano il desiderio, o forse meglio, la necessità, di parlare con chi non è più di questo mondo e dedica il suo tempo, insieme alla moglie, ad ascoltare chi lì si reca e alle storie che porta dentro si sé.

Tutto ciò succedeva dopo lo tsunami del 2011 di cui il romanzo è, in definitiva, una sorta di memoria, quasi un omaggio. Ma lieve, discreto, rispettoso e pieno d’amore. C’è chi non riesce nemmeno a sollevare la cornetta di quel pesante apparecchio, chi parla fitto fitto, chi la tiene in mano e tace. I personaggi del libro si incontrano nel giardino con il telefono, custodito da un guardiano (che solo in parte, spiega l’autrice, rassomiglia a Sasaki), e lì si spogliano delle proprie difese, mettendo a nudo le ferite e riuscendo in definitiva a incontrarsi davvero. Questo è quello che accade a Yui, che nella tragedia ha perso la mamma e la figlia, e a Takeshi, un medico ormai vedovo che vive con la figlioletta di quattro anni.

Imai Messina però non scrive “solo” una storia: ci porta dentro al suo sentire che è – ed è questa probabilmente la ragione del successo dei suoi romanzi –universale, perché intercetta quei pensieri che tutti abbiamo almeno una volta pensato, senza però essere mai banale (“Imparò da Yiu che domani, per principio, non è una cosa che c’è”, “l’amore è come un a terapia funziona solo quando ci credi”, “da bambini la felicità si percepisce come una cosa. […] Da grandi si fa tutto più complicato. La felicità è il successo, il lavoro, un uomo o una donna, tutte cose sfumate, laboriose. Quando c’è e anche quando non c’è, diventa soprattutto questo, una parola”). Ai capitoli in cui la storia procede (e i sentimenti si intensificano) si alternano frammenti in cui l’animo riposa: sono delle specie di “liste” come la “scaletta musicale di quella notte durante il programma radiofonico di Yui” o l’elenco di “come rendere i bambini felici di essere al mondo”, o ancora “due cose che venne a scoprire Yiu cercando la parola abbraccio su Google il giorno seguente” ecc.

Se da un lato il tema è la vita, l’amore persino, l’autrice tratteggia con delicatezza soprattutto cos’è la morte, specie per chi resta, e lo fa come in quei lavoretti da bambini col punteruolo. L’infilata dei suoi puntini piccoli e singolarmente inoffensivi evidenzia sul foglio una forma, che è quella che ci resta in mano alla fine:

“Di chi non si sa nulla, non c’è più niente da dire. Di chi non si sa nulla, nulla più importa. In quel luogo di confino Yui scoprì di aver imparato un’altra cosa importante, ovvero che un uomo bastava tacerlo per eliminarlo per sempre. Per questo serviva ricordare le storie, parlare con le persone. Ascoltare le persone parlare di altre persone. Anche dialogare con i morti, se fosse servito”.

Abbiamo intervistato l'autrice:

 

Un uomo bastava tacerlo per eliminarlo per sempre. Per questo serviva ricordare le storie, parlare con le persone Laura Imai Messina

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