I raccolti agricoli destinati alla produzione di cibo non sono sufficienti a garantire che i Obiettivi di sviluppo sostenibile dell'Agenda 2030 vengano raggiunti. In particolare, se da qui al 2030 non si cambia la destinazione di ciò che viene prodotto, l’obiettivo numero 2, “sconfiggere la fame”, è improbabile. A dirlo è uno studio pubblicato sulla rivista Nature Food e realizzato da un gruppo di ricercatori guidato da Deepak K. Ray dell’Institute on the Environment dell’Università del Minnesota a Saint Paul (USA).
I ricercatori hanno preso in considerazione i dati sui raccolti agricoli tra il 1964 e il 2013. È un periodo di cinquant’anni in cui si è passati dalla Rivoluzione Verde, il grande movimento per sconfiggere la fame e migliorare l’agricoltura dei paesi più poveri, alla consapevolezza della crisi climatica. Lo studio si è concentrato sulle dieci colture principali, corrispondenti a circa l’83% delle calorie raccolte: orzo, cassava, mais, palma da olio, colza, riso, sorgo, soia, canna da zucchero e frumento. Queste colture non solo rappresentano la stragrande maggioranza delle fonti di calorie agricole, ma la loro coltivazione copre il 63% delle aree coltivate planetarie, “una proporzione che nel passato mezzo secolo è rimasta stabile”, scrivono nell’articolo. In altre parole, i dati che i ricercatori guidati da Ray hanno analizzato rappresentano una buonissima approssimazione dell’andamento dell’agricoltura a scopo alimentare nell’ultimo mezzo secolo e permettono di capire come potrebbe essere il futuro se nessun elemento dell’equazione dovesse essere modificato.
Le due mappe mettono a confronto le aree coltivate delle terre emerse negli anni Sessanta del Novecento e nell'ultimo decennio, mettendo in evidenza la diversa distribuzione (Ray et al. Nature Food volume 3, pages367–374 (2022))
Che cosa c’è di nuovo
Il punto dello studio non era capire se c’è stata un’oscillazione della produzione di questa o quella colture, ma come è cambiata la loro destinazione dopo il raccolto. Per questo motivo, i ricercatori hanno cercato di capire quanta parte di queste colture venisse destinata a: scopi alimentari, mangimi, processamento, esportazione, usi industriali, produzione di seme e perdite. Il risultato generale è chiaro:
“Emerge chiaramente l’aumento dei raccolti di colture destinate all'esportazione, al processamento e all'uso industriale, unitamente ai loro rendimenti più elevati e ai guadagni più rapidi; a un livello più granulare, ciò è dovuto al fatto che alcune regioni si stanno specializzando sempre più nella raccolta di colture per questi usi”.
Cioè, nei cinquant’anni analizzati i raccolti di queste dieci colture fondamentali sono stati destinata in proporzione crescente a usi che non sono quelli di soddisfare direttamente i fabbisogni alimentari.
Contatto direttamente, Deepak K. Ray sottolinea come “spesso sentiamo dire che ci siano abbastanza calorie a disposizione nel mondo. In effetti è vero. Ma il punto è che cosa sono davvero quelle calorie? Non tutte vengono raccolte per essere consumate come cibo”. Questo è vero, per esempio, anche per paesi asiatici che hanno visto un significativo aumento dei propri raccolti. In Malesia, la crescita è data molto dalle colture per l'esportazione e per l’uso industriale, mentre in Indonesia si è verificata per le colture per l'esportazione e un aumento minore delle colture per uso industriale. “Gli stati dell'Asia centrale, in particolare il Kazakistan e alcune parti della Russia, hanno registrato una forte riduzione delle colture raccolte per uso alimentare diretto nel periodo analizzato, sostituite dalle colture destinate all'esportazione”, si legge nell’articolo.
Il problema della disponibilità delle calorie
“Quello che volevo mostrare per prima cosa”, commenta Ray, “è per quale scopo le colture vengono davvero raccolte in tutto il mondo e come i vari usi sono cambiati nel tempo”. Una volta mostrato questo andamento, con destinazioni diverse dal consumo diretto delle calorie prodotte dai raccolti, entra in gioco il rapporto con i Sustainable Development Goals: questo spostamento della destinazione fa sì che nonostante la quantità di calorie disponibile sia addirittura cresciuta, queste non sono comunque sufficienti a sconfiggere la fame (obiettivo numero 2).
La Figura a mostra la previsione di distribuzione delle aree coltivate nel 2030 sulla base dei dati analizzati. La figura b mostra quali paesi saranno maggiormente in difficoltà al 2030 (Ray et al. Nature Food volume 3, pages367–374 (2022))
Come mai? Prendiamo la quantità di calorie che se ne va in esportazioni. Immaginiamo un paese che sia un forte produttore di frumento e che ne esporti una certa quantità perché il prezzo che gli pagano all’estero è più alto di quello che strappa nel proprio mercato interno. Questa fonte calorica continua a contare nel computo globale delle calorie a disposizione dell’umanità, ma non è più nella disponibilità degli abitanti di quel paese, proprio perché il prezzo fuori dal loro mercato è più alto.
Allargando lo sguardo al processamento per la produzione di cibi confezionati o semi-lavorati e all’uso in ambito industriale, nei tre settori che hanno visto maggiormente crescere la propria disponibilità di calorie nell’ultimo mezzo secolo, Ray sottolinea che “forniscono ancora calorie in una varietà di settori di utilizzo all'interno delle nazioni importatrici. Ma quante delle nazioni che non possono contare su una solida sicurezza alimentare hanno la capacità di competere sui mercati internazionali? È probabile che paesi come quelli dell'Africa subsahariana abbiano difficoltà ad acquistare grano dalle nazioni esportatrici e saranno superati da paesi ricchi come quelli del Medio Oriente”.
Sulla base di queste analisi, si intuisce che il problema è quindi forse la distribuzione della produzione e della destinazione dei raccolti. Molti paesi e regioni del mondo, proprio per effetto di quella Rivoluzione Verde che ha tratto fuori dalla condizione di fame milioni e milioni di persone combinata con l’industrializzazione e la finanziarizzazione della produzione di cibo, si sono specializzati per ottenere maggiori vantaggi economici. Ѐ sufficiente una guerra come quella in Ucraina per mandare in difficoltà una lunga catena produttiva e mettere in crisi stati che hanno basato il soddisfacimento della propria domanda interna sull’importazione. Come scrivono Ray e i suoi colleghi, si tratta sicuramente di un problema di produzione che deve essere aumentata per fare fronte ai futuri consumi, ma è soprattutto un problema di gestione e politica internazionale.