SCIENZA E RICERCA

L’Europa punta sulla ricerca militare

Sono vari i progetti finanziati nell’ambito della Preparatory Action on Defence Research (PADR), il programma lanciato a partire dal 2017 dall’Agenzia Europea per la Difesa (EDA): dai nuovi materiali mimetici alle applicazioni militari dell’intelligenza artificiale, fino alle tecnologie quantistiche e allo studio di cannoni laser e a microonde. I finanziamenti per il momento oscillano tra i 25 e i 40 milioni di euro annuali: bruscolini se si fa il confronto con gli Stati Uniti, che da soli spendono 80 miliardi all’anno in ricerca e sviluppo in ambito militare, ma anche rispetto alla Turchia, che investe oltre un miliardo. Le cose però stanno per cambiare: il PADR è infatti solo il primo passo del Fondo Europeo per la Difesa (EDF), che a partire dall’anno prossimo stanzierà sette miliardi in sette anni per sviluppare nuove applicazioni in ambito difensivo.

Un’iniziativa che potrebbe sollevare polemiche e che a prima vista non si sposa con l’immagine di un’Unione Europea focalizzata soprattutto su economia e mercati, ma che per altri versi non è del tutto aliena alle radici del processo di integrazione, in particolare con il vecchio progetto della Comunità Europea di Difesa naufragato nel lontano 1954. “In Europa ci sono già stati diversi tentativi di istituire una difesa comune, cosa che finora si è rivelata praticamente impossibile soprattutto per motivi politici – spiega Alessandro Pascolini, fisico e divulgatore dell’università di Padova che da anni si occupa di controllo degli armamenti –. Per questo oggi si punta piuttosto a raggiungere almeno una qualche forma di coordinamento, in modo da recuperare terreno in un ambito in cui Paesi europei negli ultimi anni sono rimasti un po’ indietro”.

A Bruxelles insomma è considerato strategico essere sempre più autonomi in una situazione in cui, a causa del disimpegno statunitense dallo scacchiere europeo e da quello mediorientale, anche piccole e medie potenze regionali come Turchia ed Egitto stanno rialzando la voce, . “Da tempo i Paesi Nato sono sotto pressione per migliorare le loro capacità difensive, soprattutto a causa della spinta americana ad aumentare le proprie spese militari – continua lo studioso –. Oggi il confronto internazionale, anche dal punto di vista militare, si combatte soprattutto sulle nuove tecnologie: Cina e Stati Uniti stanno già investendo moltissimo in questo campo, sia in finanziamenti militari sia sostenendo la ricerca civile. L’Ue sta cercando di aiutare i Paesi europei a recuperare terreno, ma al momento i finanziamenti sono ancora relativamente piccoli”.

Secondo Pascolini “al di là dei giudizi morali oggi non è pensabile che un Paese ad esempio non sviluppi difese cibernetiche, così come da attacchi di armi biologiche. Questo però implica l'acquisizione di conoscenze che possono avere sviluppi sia difensivi che offensivi. Non credo che in questo come in altri campi un approccio manicheo abbia molto senso”. Anche perché durante la presidenza Trump la Nato, che per decenni è stata la cornice fondamentale del sistema di difesa europeo, sembra da tempo in crisi. “Biden ha già detto che vuole rivitalizzare i rapporti con l’Europa, mentre Trump voleva solo che europei spendessero di più per la difesa e magari pagassero anche le spese degli americani. Esiste comunque un impegno da parte dei Paesi Nato a portare le spese militari al 2% del Pil: bisogna però vedere come impatterà la pandemia, che ha messo tutti Paesi europei sotto stress economico. Comunque nella situazione attuale anche senza gli Usa la Nato dispone dell’esercito più forte del mondo, subito dopo la Cina in termini di effettivi ma superiore ad essa dal punto di vista della spesa”.

Per ora nell’Alleanza Atlantica ben pochi Paesi si sono adeguati alla regola del 2%; l’Italia ad esempio nel 2019 ha speso in difesa l’1,22% del Pil: ben dietro a Regno Unito (2,14), Francia (1,84) e Germania (1,38), ma comunque in aumento rispetto a cinque anni prima. Il timore è che si scateni una corsa al riarmo che coinvolga anche i Paesi europei, in un percorso inverso rispetto a quello che negli anni ’80 portò all’eliminazione degli euromissili. “Oggi la situazione è diversa – dice Pascolini –: per il disarmo ci vogliono leader di grosso livello che sappiano leggere la situazione e vincere le resistenze interne, sia militari che civili. Allo stesso tempo la ricerca sulle nuove tecnologie, comprese quelle militari, è obbligo per ogni Paese e comunità: bisogna sempre tenersi aggiornati e conoscere quello che sta succedendo, altrimenti non si sa nemmeno da cosa difendersi”. Questo non significa che il primato tecnologico e militare risolva tutti i problemi: “Tante cose contribuiscono a farci sentire ci rendono sicuri o insicuri: a partire dall’economia e dalla salute pubblica, come purtroppo stiamo vedendo proprio questi giorni. La vera sicurezza non è certamente soltanto quella militare, ed è importante che tutti i Paesi prima o poi se ne rendano conto”.

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