CULTURA

Rileggere “in inglese” Primo Levi

La Shoah è un episodio della Storia per il quale le parole è come fossero sempre inadeguate. L’uomo davanti all’orrore ha a disposizione lo stesso dizionario che usa per parlar d’altro e questa apparente inconciliabilità, per paradosso, amplifica l’effetto devastante di quel che è stato.

“Nessuno ebbe in animo di venire a vedere […] cosa fanno gli uomini quando sanno di dover morire – scrive Primo Levi in Se questo è un uomo – Ognuno si congedò dalla vita nel modo che più gli si addiceva […] Le madri vegliarono a preparare con dolce cura il cibo per il viaggio, e lavarono i bambini, e fecero i bagagli, e all’alba i fili spinati erano pieni di biancheria infantile stesa al vento ad asciugare; e non dimenticarono le fasce, e i giocattoli, e i cuscini, e le cento piccole cose che esse ben sanno, e di cui i bambini hanno in ogni caso bisogno […]”.

Cuscini, giochi, panni stesi: parole che sanno di vita e invece sono l’anticamera della morte.

Bruno Osimo, narratore ma ancor prima traduttore dal russo – uomo quindi che mastica i vuoti e i pieni del linguaggio – e nato da famiglia ebrea laica, esce in questi giorni con un libro per Francesco Brioschi Editore (Primo Levi. I miti d’oggi) in cui compie un’operazione ardita. Non nuovo alla forma “narrativa” del dizionario (così sono anche i suoi Dizionario affettivo della lingua ebraica e Breviario del rivoluzionario da giovane per marcosymarcos) sceglie un elenco di anglismi e americanismi cui siamo oramai avvezzi, e usiamo largamente in italiano, associandovi una frase tratta dall’opera (o magari anche da qualche intervista) di Primo Levi.

Ho creato un centinaio di cortocircuiti fra la prosa di Primo e uno spicchio di realtà contemporanea – spiega Osimo nell’introduzione – dandomi alcune regole: per ciascun capitolo ho individuato una parola chiave inglese tra le espressioni che usiamo correntemente nell’italiano contemporaneo, a volte per precisione, a volte per pigrizia, magari per entusiasmo, oppure per aderire a un modello, o perché l’inglese ci affascina; ho collocato sotto sotto questa parola chiave una breve citazione da varie opere di Primo Levi; ho sviluppato un testo nel quale cerco di spiegare in che senso è possibile conciliare la parola chiave con la citazione”. Così facendo Osimo ha creato un testo che cortocircuita doppiamente: nella misura in cui nell’accostamento linguistico si avverte una distanza siderale tra la “quotidianità” e l’orrore, ma anche perché appare evidente come siano cambiati la velocità, il tratto e l’orizzonte del nostro mondo rispetto a qualche (non troppo) tempo fa, e oggi trovano ampio spazio parole – e quindi concetti (“nomen omen”) – come reality show, storytelling, all you can eat, brand, briefing, mindfulness, memory foam, skill, think tank, social, wireless eccetera.

Ecco quindi che a “reality show” Osimo associa la citazione tratta da Se questo è un uomo: “Si rinchiudano tra i fili spinati migliaia di individui diversi per età, condizione, origine, lingua, cultura e costumi, e siano quivi sottoposti a un regime di vita costante, controllabile, identico per tutti e inferiore a tutti i bisogni […], a “wireless”: “[…] il mattino del 23 un tratto di fio spinato era stato abbattuto, e una doppia processione di miserabili usciva ed entrava dall’apertura”, a “bed&breakfast” due righe de I sommersi e i salvati: “[…] è bello sedere al caldo, davanti al cibo ed al vino, e ricordare a sé ed agli altri la fatica, il freddo e la fame […]”, e così via.

È una forma di provocazione? Possibile. Certamente è un pungolo a riflettere su quello che succede e ci succede, per non smettere – mai – di pensare criticamente.

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