SCIENZA E RICERCA

Riportiamo la ricerca in Europa

Nel momento in cui scriviamo hanno firmato in 6.376. Sono donne e uomini di scienza di tutta Europa. E hanno aderito a un appello proposto una settimana fa che esordisce così:


Your Excellencies Presidents Sassoli, Dr. Juncker and Dr. von der Leyen,

i candidati per la nuova Commissione dell’Unione Europea sono stati presentati la scorsa settimana [il 10 settembre]. Nella nuova Commissione l’area della formazione e della ricerca non è più esplicitamente rappresentata mentre è stata inclusa sotto il titolo “innovation and youth” [innovazione e gioventù]. Ciò enfatizza il fatto che l’utilità economica (per esempio, innovazione) ha la meglio sugli elementi fondanti, che sono formazione e ricerca scientifica, mentre riduce la “formazione” alla “gioventù” mentre essa è essenziale a ogni età. 

Il succo dell’appello è chiaro. Cara Unione Europea, ti sei dimenticata dalla ricerca scientifica e della formazione, per correre dietro all’immediata applicazione di nuovo conoscenze nell’illusione di recuperare così il gap, crescente, di competitività con le antiche (USA, Giappone) e con le nuove (Cina, Corea del Sud e un’altra decina di “tigri asiatiche”) economie che puntano sulla conoscenza per alimentare il loro sviluppo.

Potrebbe sembrare una faccenda nominalistica. Ma in realtà l’aver “dimenticato” la ricerca e la formazione è l’ennesima piuma che fa vacillare il cammello europeo e si appresta a farlo cadere sulle sue gambe.

Il numero di pesantissime piume sulla groppa ormai esausta dell’Unione Europea. Hanno iniziato ad accumularsi questi fardelli in apparenza leggeri già alla fine del secolo scorso, quando il francese Jacques Delors, che è stato presidente della Commissione europea, pubblicò un libro bianco in cui denunciava il rischio, sempre più evidente, di un declino relativo del Vecchio Continente. Delors lanciò anche un’indicazione, per restituire all’Europa un ruolo da protagonista nel mondo occorre puntare sulla conoscenza.

L’indicazione di Delors si trasformò in un progetto politico nell’anno 2000, a Lisbona, quando i capi di tutti i governi dell’Unione si impegnarono a far sì che l’Unione Europea entro dieci anni (ovvero entro il 2010) diventasse “l’area leader al mondo dell’economia della conoscenza”. Due anni dopo, nel 2002, a Barcellona i capi di governo dei medesimi paesi diedero anche indicazioni quantitative per raggiungere l’ambizioso obiettivo di Lisbona: portare gli investimenti in ricerca e sviluppo dall’allora 2,0% circa al 3,0% netto del Prodotto interno lordo di ogni paese. Con questa suddivisione: 1,0% a carica degli stati e 2,0% a carico delle industrie. 

Il 2010 è arrivato e gli obiettivi di Lisbona + Barcellona non sono stati raggiunti. Allora la Commissione presieduta dal dr. Barroso propose di riconfermarli, traguardandoli al 2020. L’anno indicato è alle porte e non solo l’Europa non si è avvicinata a quegli obiettivi reiterati ma se ne sta allontanando.

Per due motivi, essenzialmente. Alcuni paesi hanno consolidato gli investimenti in R&S su obiettivi prossimi (USA) o addirittura superiori a quelli considerati ideali a Barcellona nel 2002 (Giappone, Corea del Sud, Israele). L’Unione Europea – forse per la prima volta negli ultimi quattrocento anni) – investe in ricerca scientifica meno della media mondiale. Infine è stata superata dalla grande potenza emergente, la Cina, sia in termini di investimenti assoluti che relativi.

Un disastro. Per nulla attenuato dal fatto che un frammento europeo, quello che ruota intorno alla Germania, è prossimo all’obiettivo di Barcellona. Ma questo frammento non basta né per la competitività a scala globale dell’Unione Europea né per quella dell’area teutonica

Sono almeno venti anni, dunque, che l’Europa sta disattendendo all’unica possibilità che ha di competere alla pari con i giganti del mondo. Ecco, dunque, che il fatto che oggi non ci sia più un Commissario alla “ricerca” e “formazione” assume una connotazione più chiara. L’Europa sembra intenzionata a seguire la strada del regresso.

I lettori a questo punto coglieranno la contraddizione: hai accusato l’Europa di avere un approccio utilitaristico alla produzione di nuova conoscenza e non fai altro che parlare di economia.

La contraddizione è solo apparente. Perché la catena dell’innovazione cui si riferiva Delors ha tre fasi, di cui quella tecnologica è solo l’ultima. Prima viene l’attenzione (con relativi investimenti) alla ricerca applicata. E prima ancora l’attenzione (con relativi investimenti) alla ricerca di base o curiosity-driven, tesa a soddisfare solo la curiosità delle scienziate e degli scienziati. Questa ricerca curiosity-drivenè il primum movens, il motore primo, dell’intera catena dell’economia e più in generale della società della conoscenza. 

Dunque dimenticarsi della “ricerca” e della “formazione” nel attribuire un nome alle poltrone significa dimenticarsi di tutto questo. E anche di altro: ovvero della necessità di giungere in tempi rapidi a una maggiore omogeneità della ricerca europea. Antonio Ruberti la chiamava, con più eleganza e anche sostanza, la necessità di costruire “la casa comune della ricerca”. Se la ricerca non c’è più, è molto difficile costruire “la casa comune”.

Certo, non basta cambiare il nome per realizzare una politica. Ma a chiusura del loro appello i 6.376 firmatari dicono:

Con questa lettera aperta noi chiediamo alla Commissione UE di rivedere il tirolo per il commissario Gabriel in “Formazione, Ricerca, Innovazione e Gioventù” in modo da riflettere la dedizione dell’Europa a tutte queste aree cruciali. Noi domandiamo anche al Parlamento Europeo di richiedere questo cambio del nome prima di confermare le nomine dei commissari.

Poi chiedono a noi tutti cittadini d’Europa di supportare la lettera/appello firmandola presso questo indirizzo.

La nostra firma non cambierà, forse, la politica dell’Europa. Ma renderà chiaro che noi nel progetto Delors, nell’idea di Ruberti, nella società democratica della conoscenza e del ruolo che vi deve avere l’Europa nel costruirla crediamo fermamente.

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