SCIENZA E RICERCA

Sars-CoV-2: la luce solare inattiva il virus?

Lo studio fornisce la prima evidenza che la luce solare può rapidamente inattivare Sars-CoV-2 sulle superfici, suggerendo che la persistenza, e il conseguente rischio di esposizione, può variare significativamente tra gli ambienti esterni e quelli interni”. Esordiscono così gli autori di un articolo pubblicato recentemente su The Journal of Infection Disease (Simulated Sunlight Rapidly Inactivates SARS-CoV-2 on Surfaces): gli scienziati hanno esposto il virus a luce solare simulata – ottenuta artificialmente e rappresentativa del solstizio d'estate a 40°N di latitudine a livello del mare in una giornata limpida –, dimostrando che il 90% di Sars-CoV-2 viene inattivato in 6,8 minuti in una soluzione che imita la saliva e in 14,3 minuti in terreni di coltura. I ricercatori hanno osservato anche una inattivazione, sebbene a una velocità inferiore, a livelli di luce solare simulati più bassi. Dunque ne possiamo dedurre che il virus Sars-CoV-2 può essere inattivato nell’ambiente esterno, d’estate per esempio?

Ne abbiamo parlato con Sara Richter, ordinario di microbiologia all’università di Padova, che comincia da una premessa: “Una via di trasmissione ipotizzata per Sars-CoV-2, in base alla similitudine con il primo Sars-CoV, è quella respiratoria. Il virus viene rilasciato nelle goccioline di aerosol emesse da una persona infetta quando tossisce o starnutisce, ma anche semplicemente quando parla o respira: se vengono inspirate da un’altra persona questa si può infettare. Una seconda via di trasmissione, poi, è quella che avviene attraverso il contatto con oggetti contaminati”. Le goccioline emesse da una persona infetta, spiega, possono depositarsi sugli oggetti: se un individuo sano tocca queste superfici con le mani e poi porta le mani al viso (alla bocca o al naso per esempio), il virus trova una via d’ingresso per contagiare il nuovo soggetto.

Guarda l'intervento completo di Sara Richter, del dipartimento di Medicina molecolare dell'università di Padova. Servizio di Monica Panetto, montaggio di Elisa Speronello

Studi su coronavirus, come quelli della Sars e della Mers, suggeriscono che questi agenti patogeni possono sopravvivere sulle superfici per un periodo di tempo che va da poche ore ad alcuni giorni, a seconda del materiale su cui si depositano, della concentrazione, della temperatura e dell’umidità.

Come si legge in un documento pubblicato recentemente dall’Istituto superiore di Sanità, che si rifà alla letteratura più recente, Sars-CoV-2 può resistere fino a 72 ore su plastica e acciaio inossidabile, anche se la carica infettiva si dimezza rispettivamente dopo circa sei e sette ore. Persiste di meno invece su rame e  cartone: per questi materiali è stato osservato un abbattimento completo dell’infettività rispettivamente dopo quattro e 24 ore. Il virus Sars-Cov-2, inoltre, risulterebbe sensibile al calore. È altamente stabile alla temperatura di 4oC, con una riduzione di circa 0,7 unità logaritmiche del titolo virale al quattordicesimo giorno. Se invece si aumenta la temperatura di incubazione a 56oC l’infettività virale diminuisce in modo significativo entro 10 minuti e dopo 30 minuti il virus non è più rilevabile. Questo accade dopo cinque minuti, se si raggiungono i 70oC.

Poste queste premesse, si intuisce il significato che potenzialmente potrebbe assumere lo studio pubblicato su The Journal of Infection Disease. Richter ricorda che il virus può essere eliminato dalle superfici con prodotti detergenti e disinfettanti – secondo le indicazioni fornite nel documento dell’Istituto superiore di Sanità –, ma precisa che esistono anche mezzi fisici per farlo come l’impiego della luce UV (distinguibile in luce UVA, UVB e UVC). Lampade a raggi UVC, ad esempio, vengono normalmente impiegate nei laboratori per sterilizzare cappe biologiche. “Gli autori dell’articolo hanno studiato la resistenza del virus esposto alla luce solare, in particolare hanno mimato la luce solare con raggi UVA e UVB. Si sa, tuttavia, che i primi non hanno attività germicida, quindi di fatto gli effetti riscontrati sono dovuti ai raggi UVB. E i ricercatori dimostrano che effettivamente il virus, presente in materiale che simula la saliva umana, viene inattivato efficientemente in tempi molto minori rispetto a quelli rilevati in assenza di raggi UV, quindi nel giro di pochi minuti”.

Tuttavia si devono fare alcune precisazioni: “Lo studio – continua la docente – può fornire un’indicazione che il virus, all’esterno esposto alla luce del sole, resiste molto meno che depositato su oggetti in ambiente interno. Gli stessi autori, però, fanno notare che gli esperimenti sono stati condotti in condizioni di irradiazione costante, mentre nell’ambiente l’intensità dei raggi può variare notevolmente in base alla presenza di nuvole, di umidità, di temperatura. Quindi diciamo che in un giorno di sole estivo, di sole pieno, alle nostre latitudini, è molto probabile che il virus sulle superfici non porose esposte al sole (sulle quali si concentrano i ricercatori, ndr) venga inattivato. D’altra parte però è difficile quantificare in quanto tempo questo accada e se si ha una inattivazione del 100%. Inoltre, si deve considerare anche che esistono materiali con superfici porose, per esempio i tessuti, e non abbiamo dati a questo proposito”.  

Sara Richter prosegue con ulteriori osservazioni: “Diversi lavori della letteratura più recente, non particolarmente focalizzati sul coronavirus, hanno dimostrato che un determinato intervallo di raggi UVC, in particolare fra 208 e 220 nanometri, è efficace nell’uccidere batteri e virus ma non danneggia le cellule umane, quindi non ha un effetto cancerogeno come normalmente accade per un altro range di queste lunghezze d’onda. La capacità di penetrazione di tali raggi, infatti, è molto bassa: riescono ad arrivare al materiale genetico di organismi che hanno un diametro inferiore a 1 micron, come batteri e virus, ma non di cellule umane con un diametro di 10-20 volte superiore. Questa potrebbe, quindi, diventare una strategia futura da utilizzare negli ambienti interni, si potrebbe valutare per esempio di dislocare queste lampade a luce UVC soprattutto in ambito ospedaliero, ma poi il metodo potrebbe essere esteso: il soggetto, in questo modo, può rimanere esposto alla luce UVC (nell’intervallo indicato) senza subire danni, mentre si procede a una disinfezione naturale dei microrganismi, dei virus, in questo caso del coronavirus Sars-CoV-2”.

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