SCIENZA E RICERCA

La crescita delle emissioni e il rischio di collasso dell’AMOC

“Basta chiacchiere, per favore!”. È questo il titolo dell’ultimo Emissions Gap Report, il rapporto sulle emissioni di gas serra dell’Unep, il Programma ambientale delle Nazioni Unite. “No more hot air… please”, un gioco di parole che significa basta aria fritta, ma anche basta aria calda.

Nel 2023 le emissioni di gas climalteranti, prodotte dal settore energetico, da quello agricolo-forestale, industriale e dai rifiuti, sono continuate a salire raggiungendo un nuovo record storico di 57,1 miliardi di tonnellate (Gt) di CO2 equivalente, in aumento dell’1,3% rispetto al 2022. Il mondo continua ad andare nella direzione opposta a quella verso cui dovrebbe rapidamente voltarsi.

Entro febbraio 2025, in vista della COP 30 che si terrà a fine 2025 in Brasile, i Paesi delle Nazioni Unite dovranno consegnare, come previsto dall’accordo di Parigi, gli aggiornamenti dei loro piani di azione climatica, le NDCs (Natinoally Determined Contributions). Alcune dovrebbero già esser pronte per la imminente COP 29, che si terrà a Baku in Azerbaijan tra l’11 e il 22 novembre. “Con un enorme iato tra retorica e realtà, i Paesi preparano i loro nuovi impegni climatici” recita il sottotitolo del rapporto.

Per restare su una traiettoria compatibile con un riscaldamento globale non superiore a 1,5°C rispetto all’era pre-industriale, le emissioni globali dovrebbero venire tagliate del 42% entro il 2030, cioè in poco più di 5 anni. Secondo il rapporto, siamo invece instradati su un mondo più caldo di 2,6° - 3,1°C a fine secolo.

Solo sei attori (Cina, Stati Uniti, India, Unione Europea, Russia e Brasile) sono responsabili di quasi due terzi (63%) delle emissioni globali. L’insieme dei 47 Paesi meno sviluppati si ferma al 3%, i 55 Paesi africani al 5%. La media globale delle emissioni pro-capite è 6,6 t/CO2, ma negli Stati Uniti e in Russia è tre volte tanto (18 e 19), in Cina quasi il doppio (11), in Europa 7,3, in India la metà (2,9) e in Africa ancora meno (2,2).

Gli attuali piani di azione climatica dei Paesi dell’Onu sommati tra loro restituiscono una società globale che nel 2030 continua a produrre la stessa quantità di emissioni di oggi, circa 57 Gt CO2 eq, quando per restare al di sotto dei 2°C di riscaldamento globale dovrebbero essere più basse di 14 Gt, circa il 25% in meno. È questo il gap, lo iato minimo, che il rapporto dell’Unep ci dice dobbiamo rapidamente colmare.

Se non lo faremo, la temperatura media dell’aria del pianeta aumenterà più di quel grado e mezzo, oltre il quale, ripetono da decenni gli scienziati climatologi, si fa molto elevato il rischio di vedere crollare gli assi portanti dell’equilibrio geofisico del pianeta.

Uno di questi assi portanti è una corrente oceanica, nota con l’acronimo di AMOC (Atlantic Meridional Overturning Circulation). A volte viene confusa con la corrente del Golfo, perché compie parte del suo tragitto al suo fianco e contribuisce al 20% del suo flusso. Ma è molto più imponente e parte da molto più lontano.

Può essere immaginata come un nastro trasportatore che sposta acqua calda, lungo l’oceano Atlantico, dall’emisfero australe a quello boreale, lambendo la costa americana, dal Sud Africa alle coste occidentali dell’Europa. A sud della Groenlandia incontra temperature più basse e poiché l’acqua fredda è più densa di quella calda la corrente si inabissa, fino anche a 2000 o 3000 metri. Nelle profondità la corrente si gira e torna verso sud, dove si riscalda nuovamente e ricomincia il giro.

Da questa dinamica dei flussi oceanici dipende la regolazione delle temperature e delle precipitazioni di entrambe le sponde dell’Atlantico. Nella sua risalita, l’AMOC cede calore all’atmosfera, in enormi quantità: 50 volte l’energia usata dall’intera umanità. Se la Terra fosse un grande condominio, l’AMOC sarebbe un sistema di riscaldamento centralizzato che distribuisce calore alle unità abitative.

Un gruppo di 44 scienziati del clima lo scorso ottobre ha firmato una lettera aperta che intende riportare i riflettori sul rischio di collasso di questa linfa planetaria, reso molto più elevato dall’aumento delle emissioni e del riscaldamento globale. L’appello è indirizzato al Consiglio nordico dei ministri, un’organizzazione intergovernativa che riunisce Danimarca, Svezia, Finlandia, Norvegia e Islanda, ma è rivolto all’attenzione di tutto il mondo.

Tra i firmatari c’è anche Stefan Rahmstorf, oceanografo e climatologo a capo del dipartimento di analisi del sistema terrestre del Potsdam Institute for Climate Impact Research in Germania. Rahmstorf ha consegnato la lettera nelle mani del ministro dell’ambiente islandese e ha spiegato qual è la posta in gioco.

Negli ultimi decenni la temperatura superficiale della Terra è cresciuta ovunque, a eccezione di un’area marina al di sotto della Groenlandia, che invece si è raffreddata. È nota come cold blob, macchia fredda. In concomitanza al suo raffreddamento, i dati storici mostrano che dal 1940 almeno si è anche riscaldata più della media terrestre la superficie dell’acqua a largo della costa nordamericana dell’Atlantico.

I modelli fisici che studiano la dinamica dell’AMOC predicono che un suo rallentamento produrrebbe esattamente questo schema di raffreddamento e riscaldamento di quelle due aree. La principale ragione di tale rallentamento ha a che fare con il riscaldamento globale.

Raggiunto il cold blob, l’AMOC dovrebbe inabissarsi: l’acqua fredda ha una densità maggiore di quella calda e per questo sprofonda. Oltre alla temperatura però, conta la salinità dell’acqua.

Negli ultimi decenni la massa d’acqua fredda a sud Groenlandia è diventata anche sempre meno salata. Questo perché grandi quantità di ghiaccio marino dall’Artico e soprattutto terrestre dalla Groenlandia si sciolgono a ritmi crescenti e si riversano in mare. Oltre a ciò, il riscaldamento globale favorisce l’evaporazione marina ai tropici e nelle regioni sub-polari maggiori precipitazioni, che pure contribuiscono a diluire l’acqua marina. Oggi i livelli di salinità della macchia fredda sono i più bassi da 120 anni, quando sono iniziate le prime misurazioni.

Minore è la salinità, minore è la densità dell’acqua. Mischiandosi lungo la sua strada con una maggiore concentrazione di acqua dolce, meno densa, l’AMOC fa più fatica a inabissarsi e a proseguire il suo cammino. Di conseguenza, tutta la circolazione calda da sud a nord e quella più fredda da nord a sud rallenta.

Gli scienziati hanno anche simulato gli effetti di un possibile arresto della corrente. Tutto l’emisfero settentrionale subirebbe un drastico abbassamento delle temperature, che invece salirebbero in quello meridionale.

Lo scenario da considerare tuttavia è un altro. Agli effetti del solo collasso dell’Amoc vanno sommati quelli del riscaldamento globale antropico, che nel frattempo continua: la macchia fredda sotto la Groenlandia diventerebbe allora molto più espansa e investirebbe tutti i Paesi del Consiglio Nordico, l’Irlanda e il Regno Unito e creerebbe sopra l’Europa Centrale una linea di demarcazione tra questa enorme massa di aria fredda e un’ancora più grande massa di aria calda sopra le aree meridionali del Vecchio Continente. “Se si ha il riscaldamento dell’Europa del Sud e il raffreddamento dell’Europa del nord, questa è davvero una brutta notizia per gli eventi meteorologici estremi che si verificherebbero” spiega Rehmstorf. L’estrema variabilità meteorologica sarebbe una catastrofe per l’agricoltura europea.

Un’altra conseguenza sarebbe una notevole variazione dei pattern di precipitazione in tutto il pianeta, con zone più aride al nord e precipitazioni più intense ai tropici.

Il destino dell’AMOC non sarà lineare secondo Rahmstorf. Come i tutti i sistemi complessi, il suo comportamento dipende da soglie che, una volta superate, innescano andamenti accelerati e irreversibili. Se e quando verrà superata la soglia critica che porta al suo inevitabile collasso, il tipping point o punto di non ritorno, ancora non lo sappiamo. I rapporti dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), che pure finora non hanno sottostimato l’eventualità del collasso dell’AMOC, dicono però chiaramente che un riscaldamento globale maggiore di un grado e mezzo aumenta di molto il rischio di oltrepassare tutte le soglie critiche planetarie, tra cui c’è anche quella dell’AMOC.

Il suo superamento dipende da tanti fattori, che si amplificano reciprocamente in un sistema di feedback. Conta non solo quanta acqua dolce la corrente incontra nel cold blob, ma anche quanta evaporazione subisce e quanta acqua salata è in grado di far arrivare. Più rallenta, meno forza di portata ha.

Uno studio ad oggi non ancora pubblicato, mostrato da Rahmstorf, simula l’andamento dell’AMOC oltre il 2100 e in tutti gli scenari in cui le emissioni continuano a essere elevate, e il riscaldamento globale a galoppare, la corrente collassa inevitabilmente. Secondo lo studio però avrebbe una probabilità di collassare anche in scenari a basse emissioni.

Uno degli aspetti più preoccupanti di queste simulazioni è che prevedono che il punto di non ritorno venga superato già nella prima metà del XXI secolo. Lo spegnimento della corrente poi sarebbe lento e graduale, ma inevitabile.

Il naturale inabissamento dell’AMOC oggi porta in profondità non solo acqua, ma anche l’anidride carbonica che l’oceano Atlantico assorbe dall’atmosfera. Il collasso della corrente farebbe diminuire la capacità dell’oceano di operare come carbon sink, dice Rahmstorf, e aggiunge che avrebbe un impatto anche sull’innalzamento del livello dei mari.

I punti fermi che pongono gli scienziati che hanno firmato la lettera aperta sono due. Il primo è che ci sono chiare evidenze che l’AMOC sta rallentando la sua corsa. Il secondo è che studiando la dinamica del suo flusso sappiamo che esiste una soglia critica, oltre la quale il suo spegnimento sarà inevitabile. Ciò che la scienza ad oggi non sa stabilire con altrettanta chiarezza è quanto vicino o lontano sia quel punto di non ritorno.

Le ricerche sugli effetti sommati di riscaldamento globale e collasso dell’Amoc tuttavia sono ancora poche. La lettera dei 44 esperti chiede supporto per capirci di più. “Gli ultimi studi però ci hanno dato, o per lo meno hanno dato a me, l’impressione che il rischio è molto più grande di quanto pensassimo solo 5 anni fa” ha concluso Rahmstorf. Il prossimo rapporto IPCC, il settimo, è atteso verso la fine di questo decennio. Con ogni probabilità includerà gli studi citati da Rahmstorf, che finora non erano stati considerati a sufficienza nei modelli predittivi sull’andamento del clima del pianeta.

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