CULTURA

Alla scoperta del gusto

Vi siete mai chiesti cosa ci sia dietro il nostro piacere di mangiare? Perché la menta dà una sensazione di freschezza? Perché i bambini non sopportano l’amaro, ma gli adulti lo apprezzano? Cosa rende il dolce così appetibile?

Ad accomunare tutte queste domande vi è una dimensione del nostro modo di conoscere il mondo: il gusto, forse il più trascurato tra i cinque sensi. Su questo mondo, così importante nella nostra quotidianità, apre una finestra il libro De gustibus. Sul gusto negli esseri umani e negli altri animali (Topic, 2023), scritto da Davide Risso, ricercatore in ambito alimentare e scrittore, e Gabriella Morini, ricercatrice in Scienze del gusto e del cibo all’università di Scienze gastronomiche di Pollenzo.

Nel volume, che è al tempo stesso tecnico e divulgativo, i due ricercatori accompagnano il lettore alla scoperta dei diversi coté del mondo del gusto, dalle basi molecolari agli aspetti culturali di quello che è un vero e proprio linguaggio, una forma di intelligenza con cui gli umani e gli altri animali conoscono il mondo attorno a sé.

Il gusto è un fenomeno biologicamente e chimicamente complesso, che è reso possibile da un sostrato molecolare in cui moltissimi “attori” interagiscono costantemente per mediare tra l’esterno – l’ambiente chimico che ci circonda – e l’interno – il nostro corpo. Il primo stadio di questa mediazione è la chemorecezione, il processo che permette a un organismo di riconoscere e interpretare le sostanze chimiche dell’ambiente. Ciò avviene grazie a diversi sensori (nel caso del gusto, recettori gustativi) che sono specializzati nel riconoscere molecole specifiche e nel tradurre questo riconoscimento in segnali che, una volta elaborati dal nostro cervello, si trasformano in informazioni significative per il nostro stare al mondo. Le sensazioni chimiche attivate dal contatto con i recettori gustativi danno origine al gusto – da non confondere con il sapore, che, come spiegano gli autori di “De gustibus” all’inizio del libro, è il risultato delle sensazioni fisiche (consistenza, temperatura, astringenza) e chimiche (gusto, olfatto) indotte dall’assunzione di cibo.

La struttura anatomica che rende possibile questa continua e complessa cascata di percezioni è davvero molto articolata. I ricercatori fanno un buon lavoro nell’aiutare il lettore non esperto a districarsi tra recettori, proteine, cellule e papille gustative, seppure il tentativo di tenere insieme tutti i dettagli vada, in alcuni punti, a discapito della scorrevolezza del testo.

Grande merito va allo sforzo di mettere ordine in un ambito di cui tutti facciamo esperienza quotidiana, ma di cui spesso non abbiamo consapevolezza. Ad esempio, chi di noi saprebbe nominare i cinque gusti fondamentali? Dolce e salato sono scontati, amaro e acido forse; ma ve n’è un altro che gode sicuramente di minor popolarità, e che risulterà forse sconosciuto a più di qualcuno: l’umami. Scoperto all’inizio del Novecento in Giappone (come il nome denuncia), l’umami è un gusto particolare ma molto diffuso, che viene attivato dai cibi proteici: come suggeriscono Risso e Morini, «Si può pensare a un brodo di carne: un gusto che è al contempo salato, un poco dolce, ma con qualcosa in più, di saporito, di umami, appunto!».

Il linguaggio del gusto

Come dicevamo, il gusto è un vero e proprio linguaggio, un modo per avere informazioni su quel che, nell’ambiente, è utile o pericoloso per noi. Il salato, ad esempio, è tollerato fino a una certa soglia: superato un certo livello, il sodio – che in piccole quantità è fondamentale per il mantenimento dell’omeostasi – diventa tossico, tanto da indurre il vomito come meccanismo di protezione del corpo. Qualcosa di simile accade con l’acido, un gusto che “segnala” la presenza di ioni idrogeno nei cibi e che, quando è troppo intenso, diventa un segnale avversivo.

L’amaro, dal canto suo, rappresenta in natura un segnale di pericolo quasi universale: molte piante, ad esempio, sviluppano composti amari per segnalare ai potenziali predatori la propria tossicità. Gli umani, però, mangiano alimenti amari, spesso anche con grande apprezzamento. È, questo, un caso lampante di come la dimensione culturale si sovrapponga, durante la crescita individuale, agli istinti biologici: a un bambino non piacerà mai un alimento che genera un gusto amaro, ma «come specie, noi abbiamo imparato a sorpassare questo pregiudizio sensoriale-evoluzionistico e apprezzare l’amaro sulla base dell’esperienza che, a piccole dosi, può avere un effetto positivo sull’organismo, come una medicina».

Grazie all’apprendimento culturale, infatti, i nostri gusti cambiano nel tempo: più o meno tutti hanno memoria di come qualcosa di amaro, immangiabile da bambini (un caso classico: il caffè) diventi una comparsa quotidiana sulle nostre tavole una volta divenuti adulti, oppure di come un dolciume che da piccoli apprezzavamo ci sembri ora davvero troppo dolce, quasi stomachevole. La spiegazione è da ricercarsi nel particolare mescolamento di fattori biologici e culturali che caratterizzano l’approccio al mondo in particolare (anche se non unicamente) degli umani.

La cucina, una prerogativa umana

Tutti gli animali mangiano per nutrirsi, certo; ma nel caso degli umani vi è una specificità ulteriore. In base alle conoscenze odierne, sembra che la nostra specie sia l’unica ad aver sviluppato l’abitudine a cucinare i cibi, prassi che, oltre ad avere evidenti benefici nutrizionali, è profondamente influenzata dalla cultura – o, meglio, dalle culture – nella quale essa si esplica. Di questa complessa interazione è esempio un tratto unico nel mondo animale: l’apprezzamento della piccantezza. Tra gli animali che percepiscono questo gusto, infatti, gli umani sono gli unici a non esserne respinti: e la motivazione è tutta culturale, come dimostra la sua rapida diffusione globale dopo la scoperta delle Americhe da parte di Colombo e la commercializzazione di questa spezia.

Il piccante è sorprendente non solo per la sua diffusione mediata dalla cultura, ma anche per via del meccanismo biochimico che ne permette la percezione. Non tutti gli animali, infatti, percepiscono il piccante, e da questa differenza le piante hanno tratto vantaggio. I mammiferi, di solito affetti negativamente dalla capsaicina (il composto responsabile del gusto di piccante dei peperoncini), sono anche inefficaci nella dispersione dei semi di queste piante; al contrario gli uccelli, insensibili al piccante, sono più adatti alla dispersione dei semi e ne favoriscono la germinazione. Per chi può sentirlo, il piccante è un perfetto esempio di chemestesi: ad essere attivati sono i recettori deputati alla percezione del caldo, che però reagiscono non solo a questa sensazione, per così dire, meccanica, ma anche a specifici composti chimici che ‘mimano’ quella sensazione, generando simili risposte corporee (vasodilatazione, sudorazione…), come appunto la capsaicina.

 

Le storie raccontate da Davide Risso e Gabriella Morini sono tante: spaziano dallo strano adattamento di un carnivoro come il panda a mangiare quasi esclusivamente bambù alla complessa preferenza delle zanzare per il nostro odore (e sapore), dalla capacità dei cefalopodi di gustare con il tatto alla passione dei gatti per il latte, che è… falsa.

Con un’alternanza quasi sempre impeccabile tra informazioni tecniche e storie naturali, questo libro ha il merito di fare luce su un aspetto tanto quotidiano quanto sconosciuto della nostra esperienza, aprendo spiragli di conoscenza ai non esperti del settore e offrendo molti spunti di approfondimento: un modo intelligente per approcciarsi al prossimo piatto di pasta con un nuovo sguardo, e una nuova bocca.

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