SOCIETÀ

Senza figli per l'ambiente. Gli effetti dei cambiamenti climatici sulle scelte riproduttive

Tra le decisioni più importanti che una persona deve prendere nella sua vita c'è anche quella di avere o meno dei figli. Tra i tanti i fattori esterni e le convinzioni personali che possono influenzare questa scelta sta emergendo, nell'ultimo periodo, anche la questione ambientale e, in particolare, la preoccupazione per le conseguenze della crisi climatica.

Ha fatto molto parlare di sé un video su Instagram in cui Alexandria Ocasio-Cortez, rappresentante al congresso degli Stati Uniti per il partito democratico, ha posto ai suoi follower una domanda controversa: va ancora bene avere figli all'epoca dei cambiamenti climatici? L'intenzione di Ocasio-Cortez non era quella di scoraggiare le persone ad avere figli, né tantomeno di giudicare chi li ha; il suo intervento sembra avere piuttosto l'obiettivo di difendere la legittimità di questa domanda. Effettivamente, la prospettiva di portare delle nuove vite in un mondo flagellato dall'ingiustizia climatica e dai disastri ambientali può fare davvero paura.

Mossa dalla stessa preoccupazione, la musicista e attivista climatica Blythe Pepino ha fondato nel 2019 il movimento BirthStrike, a cui hanno aderito uomini e donne da tutto il mondo che desiderano dei figli ma hanno deciso di non averne finché non verranno presi dei seri provvedimenti da parte dei governi di tutto il mondo per rispondere in maniera efficace all'emergenza climatica.

Per indagare e comprendere la relazione tra cambiamenti climatici, percezione del rischio ambientale, comportamenti individuali e scelte riproduttive, circa un anno fa, i ricercatori Matthew Schneider-Mayerson e Leong Kit Ling dello Yale-NUS College di Singapore hanno condotto uno studio per capire in che misura i giovani americani tengano conto degli effetti della crisi ambientale nelle loro scelte riproduttive. Gli autori erano incuriositi dai risultati di alcune ricerche precedenti che avevano analizzato questo fenomeno: in un sondaggio del 2020, ad esempio, il 14,3% delle persone senza figli tra i 18 e i 44 anni d'età aveva indicato il cambiamento climatico come uno dei motivi principali di questa scelta.

Schneider-Mayerson e Ling hanno perciò chiesto a 607 giovani statunitensi compresi tra i 27 e i 45 anni d'età di compilare un questionario per valutare il loro livello di preoccupazione per il futuro del pianeta e delle persone che lo abitano. I risultati parlano chiaro: il 96,5% dei partecipanti si è dichiarato “molto” o “estremamente preoccupato” per il benessere dei propri esistenti, futuri o ipotetici figli a causa delle conseguenze della crisi climatica.

Come osservano gli autori, nella letteratura scientifica che negli ultimi decenni ha indagato le ragioni addotte da chi sceglieva di non avere figli, la preoccupazione ambientale emergeva già a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, anche se allora questa sembrava essere legata in gran parte al problema della sovrappopolazione. Al contrario, oggi questo timore pare riguardare più l'impatto ambientale dei comportamenti quotidiani delle persone che abitano il pianeta, che la loro quantità.

“La convinzione che non avere figli sia la scelta più etica per il bene del pianeta non è affatto irrazionale”, commenta Roberto de Vogli, professore di psicologia della salute globale all'università di Padova. “Nel 2017 è stata pubblicata una review che, a partire dall'analisi di circa 40 studi, ha calcolato l'impatto positivo che hanno quei comportamenti ecologici individuali che ogni persona può adottare nella sua quotidianità, come rinunciare ai viaggi aerei e a possedere una macchina, usare lampadine a basso consumo, evitare il consumo di carne, riciclare. Ebbene, tutte queste abitudini, che sono senz'altro virtuose e riducono le emissioni di anidride carbonica, hanno un impatto di gran lunga inferiore rispetto ad avere un figlio in meno. Infatti, avere un figlio in meno riduce, in media, le emissioni di CO2 di 58,6 tonnellate annue. Al contrario, non possedere un'automobile procura un risparmio di sole 2,4 tonnellate annue”.

Dal sondaggio di Schneider-Mayerson e Ling emerge però che il desiderio di ridurre la propria carbon footprint non è l'unica – né la principale – motivazione addotta da chi ha deciso di non avere figli a causa degli effetti del cambiamento climatico. Infatti, questa intenzione è stata espressa solo dallo 0,8% dei loro intervistati. Al contrario, per il 61,5% dei partecipanti al sondaggio il problema principale riguarda la sofferenza che avrebbero sperimentato i loro futuri o ipotetici figli in un mondo devastato dalla crisi climatica, mentre il 37,7% è preoccupato allo stesso modo per il futuro dei propri figli e per il loro impatto sul pianeta.

La riluttanza ad avere figli come conseguenza della crisi ambientale può anche essere la conseguenza della cosiddetta ansia climatica, un disagio psicologico che può trasformarsi in un vero e proprio senso di disperazione verso un futuro potenzialmente segnato, o addirittura negato, dagli effetti dei cambiamenti climatici. Un recente studio (attualmente in preprint) rappresenta la ricerca più ambiziosa e completa condotta finora con lo scopo di monitorare e comprendere il fenomeno dell'ansia climatica tra le persone comprese tra i 16 e i 25 anni d'età in tutto il mondo. L'indagine, che ha coinvolto circa 10.000 partecipanti provenienti da 10 paesi diversi, ha rilevato l'esistenza di un legame tra l'ansia climatica e le scelte riproduttive in alcuni degli intervistati: il 39% di loro ha infatti dichiarato di essere riluttante ad avere dei figli a causa della situazione ambientale disastrosa in cui si trova il pianeta.

“Lo studio sull'ansia climatica riporta che quasi il 60% di bambini e adolescenti dichiara di essere “molto preoccupato” o “estremamente preoccupato” per i cambiamenti climatici, e il 77% di loro crede che “il futuro sia spaventoso”, precisa il professor De Vogli. “Dallo studio emerge che l'ansia climatica tra bambini e adolescenti sia pervasiva al punto da influenzare addirittura le loro scelte riproduttive, ed è anche associata a una percezione di tradimento e danno morale da parte degli adulti e delle istituzioni che non li stanno proteggendo. Non hanno certo torto. Consideriamo infatti che nel 2017 è stato pubblicato uno studio condotto da due ricercatori del MIT che avevano cercato di stimare la probabilità che abbiamo di fronteggiare eventi catastrofici o rischiosi a livello esistenziale a causa del cambiamento climatico. Ebbene, i loro risultati suggeriscono che entro la fine del secolo, a causa del riscaldamento globale, ogni abitante del pianeta avrà il 5% di probabilità di trovarsi ad affrontare uno di questi eventi. Secondo gli autori, questo equivale a prendere un volo sapendo che c'è una possibilità su 20 che l'aereo si schianti. Ovviamente, con questa probabilità, non ci saliremmo mai su quell'aereo, ma allora perché dovremmo essere disposti a mandarci i nostri figli e nipoti?

“I giovani attivisti di oggi sono scontenti e arrabbiati per le risposte decisamente insufficienti alla crisi climatica da parte dei governi”, continua il professor De Vogli. “Allo stesso tempo, cercano di modificare le loro abitudini individuali per ridurre il più possibile il loro impatto sul pianeta, pur sapendo che non sono i loro comportamenti quotidiani che possono fare davvero la differenza. Pensiamo, ad esempio, che le industrie dei combustibili fossili ogni anno ricevono quasi sei trilioni di dollari americani da parte dei governi. Di fronte a una realtà come questa, è più che normale che i ragazzi e le ragazze di oggi provino un senso di tradimento e di rabbia di fronte a un futuro che è potenzialmente negato e che li porta a scegliere di non avere figli come conseguenza di una visione del futuro pessimistica, se non completamente catastrofista.

Le nuove generazioni sono infatti consapevoli che il modello di sviluppo attuale, incentrato su una crescita economica teoricamente infinita e guidato da teorie come quella del mercato che si auto-corregge, rappresenta un problema sistemico alla radice della nostra organizzazione societaria.

Se ci pensiamo bene, queste sono le prime istanze delle associazioni per la difesa dell'ambiente come i Fridays for future, che si trovano in prima linea a combattere per la giustizia climatica e che ricordano i primi movimenti ambientalisti degli anni Settanta, seppur con qualche sostanziale differenza. Come sostiene George Monbiot, giornalista e attivista, gli ambientalisti di oggi stanno riuscendo dove i loro predecessori hanno fallito negli ultimi 50 anni: sono infatti riusciti a spostare la questione ambientale e della giustizia climatica al centro dell'opinione pubblica, dell'attenzione mediatica e anche della politica, per quanto quest'ultima stia rispondendo molto lentamente. Si tratta senza dubbio di un risultato positivo, con la speranza, però, che venga attuato un vero cambiamento il prima possibile, perché il tempo è limitato e le sfide sono importanti. D'altronde, come scriveva il filosofo ed ecologista Murray Bookchin, se non faremo l'impossibile, ci troveremo di fronte all'impensabile”.

Se non faremo l'impossibile, ci troveremo di fronte all'impensabile Murray Bookchin

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