SCIENZA E RICERCA

Dove sperimentare il vaccino, ce lo ha detto Le Carré

«Perché il primo candidato vaccino contro il coronavirus non lo testiamo in Africa, dove non hanno né mascherine, né terapie né reparti di rianimazione»? La proposta – che lui stesso ha definito una provocazione – è stata avanzata lo scorso 2 aprile da Jean-Paul Mira, direttore del servizio di rianimazione dell’hôpital Cochin di Parigi nel corso di una trasmissione in onda sul canale francese di notizie LCI. Il suo interlocutore, Camille Cocht, direttore di ricerca dell’Institut national de la santé et de la recherche scientifique (Inserm), ha convenuto: «Lei ha ragione, infatti stiamo ragionando sulla possibilità di condurre uno studio parallelo da realizzare in Africa».

Lei ha ragione, infatti stiamo ragionando sulla possibilità di condurre uno studio parallelo da realizzare in Africa Camille Cocht

Immediata la reazione in Francia. Il quotidiano francese Le Monde riporta che, su iniziativa dell’Esprit d’ébène, un’associazione che si occupa dell’inserimento sociale e professionale dei giovani delle banlieue, i quartieri poveri della periferia di Parigi di altre città, è stata inviata una lettera aperta al capo dello stato, Emmanuel Macron, in cui si chiede di stigmatizzare pubblicamente e duramente le espressioni dei due eminenti uomini di medicina. La lettera aperta è stata sottoscritta immediatamente da un elevatissimo numero di persone. I giornali danno notizia anche di una denuncia per razzismo partita dall’ordine degli avvocati del Marocco e dell’indignazione di numerose personalità africane della cultura, dello spettacolo e dello sport oltre che della politica.

Il Bo Live si sarebbe limitato a darne a sua volta notizia e a manifestare un’indignazione non di maniera, ma davvero sentita – non si può far finta di non vedere il razzismo, lì dove si manifesta –, per le insensate frasi pronunciate dai due medici e accademici francesi, se non fosse che Jean-Paul Mira ha aggiunto: «d’altra parte qualcosa di simile è già stata fatta con i test contro l’AIDS: non sono stati forse condotti sulle prostitute che, si sa, erano molto esposte al rischio e poco protette»?

In realtà non si hanno notizie di sperimentazioni di farmaci e/o di candidati vaccini condotte specificamente in Africa su persone/cavie. Neppure si ha notizia di sperimentazioni su prostitute/cavie. Non di sperimentazioni ufficiali, che seguono i protocolli, anche bioetici, sulla base di standard internazionali, almeno.

Rileggere il testo dello scrittore di spionaggio ed ex agente segreto può essere in qualche modo utile. Non perché i test illegali a opera di istituzioni mediche o grandi aziende farmaceutiche occidentali siano una prassi reale, in quel continente o altrove (siamo certi che non lo è), ma perché dietro le parole dei due ricercatori francesi traspare abbastanza chiaramente un’ombra di razzismo che bisogna assolutamente dissipare. Nessuno se lo può permettere. Nessuno se lo deve permettere. Men che meno la comunità medica e scientifica.

E allora la lettura di un romanzo può allenare il nostro spirito critico. Tanto più che molti invitano a leggere i classici, in queste giornate di isolamento a casa. E Il giardiniere tenace un classico da leggere certamente lo è.

Dietro le parole dei due ricercatori francesi traspare abbastanza chiaramente un’ombra di razzismo che bisogna assolutamente dissipare

La trama, come al solito per i romanzi di Le Carré, è ben costruita: l’eroina tradita, il potente cattivo, l’imbelle che si ravvede e si riscatta. Malgrado sia piuttosto corposo (520 pagine più 4), Il giardiniere tenace si lascia leggere tutto di un fiato, come peraltro ciascuno dei libri dell’ex spia diventata scrittore. Ma è l’ambiente in cui si svolge la vicenda che rende davvero originale questa specifica fatica di John Le Carré. Non i soliti alberghi di lusso e le grandi metropoli che accolgono i protagonisti dei thrilling all’epoca della guerra fredda, come nelle spy stories precedenti. Non i covi cadenti e irraggiungibili dei terroristi mediorientali all’epoca del dopo guerra fredda. Ma i poverissimi slum e i dimenticati ospedali di Nairobi, in Kenya. È tra le capanne di fango e la recente urbanizzazione dell’Africa sub-sahariana che John Le Carrè ha voluto ambientare questo romanzo e indicare il campo di battaglia di un nuovo conflitto, latente eppure epocale: il conflitto tra il Nord ricco e il Sud povero del pianeta.

Quel conflitto culturale, prima ancora che economico, che traspare tuttora nelle parole di Jean-Paul Mira e Camille Cocht.

 

Quella che propone Le Carré è una «guerra sporca», dove si lotta non per acquisire nuovi territori ma nuovi mercati. E che viene combattuta, come scopre il suo giardiniere tenace, con armi nuove. Compresa l’arma, insospettabile, dei farmaci. E già, perché il potente cattivo nello schema narrativo di Le Carré questa volta è una delle Big Pharma, una delle multinazionali dei farmaci. L’eroina è una giovane inglese, Tessa, la quale ha scoperto che l’azienda non va tanto per il sottile nello sperimentare, lì in Kenya, un nuovo principio attivo che promette di conquistare l’appetitoso mercato della cura della tubercolosi in Africa e, in un prossimo futuro, in Occidente. I test, condotti fuori da ogni regola, uccidono. E la multinazionale non esita a uccidere la stessa Tessa, che vuole rendere pubblico lo scandalo. Infine Justin, l’ignaro marito di Tessa …

Il giardiniere tenace è un romanzo. Non descrive, è persino inutile sottolinearlo, la realtà fattuale. E chi, seguendo gli ammiccamenti peraltro interessati del suo autore, lo leggesse come un atto documentale d’accusa al sistema delle Big Pharma sbaglierebbe di grosso. L’interesse di questo romanzo divenuto ormai un classico di John Le Carré va ben oltre la storia che racconta e l’attacco alle multinazionali. Ed è un interesse non da poco.

In primo luogo suscita interesse il fatto che uno dei più popolari scrittori di spy stories scelga di romanzare il mondo della ricerca biomedica e, in particolare, il mondo della ricerca farmacologica. Questo significa che la ricerca biomedica e, in particolare, la ricerca farmacologica, con la loro impressionante accelerazione nel processo di acquisizione di nuove conoscenze, non sono più temi per soli esperti, ma sono diventati temi che coinvolgono e che appassionano il grande pubblico già prima delle paure suscitate dalle epidemie della SARS, della MERS, di Ebola e di tante altre. E, ovviamente, molto prima delle paure suscitate dal coronavirus SARS-CoV-2.

Di più. L’intuizione di Le Carré è che il grande pubblico già venti anni fa ben coglieva la dimensione drammatica che c’è dietro la ricerca biomedica e farmacologica. Così come all’epoca del confronto tra Est e Ovest mostrava di cogliere l’importanza e, insieme, il dramma dell’equilibrio basato sul terrore nucleare leggendo La Spia che venne dal freddo.

Se la biomedicina è diventa un tema di interesse generale già un paio di decenni fa, tutti noi, compresa la stessa ricerca biomedica, ne avremmo dovuto beneficiare. E se Le Carré ha intuito e, insieme, favorito questa dinamica, gli vanno riconosciuti i meriti, a prescindere dalla trama del suo romanzo, dal merito delle sue opinioni personali e dal fatto che neppure la sua penna è riuscita a sensibilizzarci abbastanza da non farci cogliere impreparati quando è arrivata Convid-2019.

Ma i meriti di Le Carré sono anche più specifici. Perché egli entra, con le 520 pagine più 4 del suo popolarissimo libro e con gli strumenti dello scrittore di spy stories, nel vivo di un problema reale, che esiste. Che non è certo quello della natura criminogena dei consigli di amministrazione delle Big Pharma, quanto l’efficacia e l’equità di un sistema di produzione di conoscenza intorno alle patologie dell’uomo e alla loro cura.

 

La gran parte di questa ricerca si svolgeva venti anni fa nei paesi dell’Occidente industrializzato e oggi anche in Cina e in altri paesi dell’oriente asiatico. E segue oggi come allora un percorso modulare. La gran parte della ricerca biomedica di base si svolge nelle università o negli enti di ricerca con fondi pubblici, come hanno documentato in questi venti anni in particolare due donne: Marcia Angell, medico e prima di sesso femminile a dirigere la rivista The New England Journal of Medicine, e Mariana Mazzucato, economista italiana in forze alla University of London.

Mentre la gran parte della ricerca sulle applicazioni farmacologiche delle conoscenze biomediche di base si svolge nei laboratori di aziende private. In altri termini sono soprattutto grandi compagnie multinazionali che cercano nuovi farmaci. In questa ricerca investono molto tempo e immensi capitali. Per trovare un nuovo principio attivo spendono miliardi di euro e impegnano anni di lavoro di migliaia di ricercatori. La logica di mercato rende molto efficiente questo meccanismo. Nessun sistema pubblico fuori dalla logica di mercato, probabilmente, potrebbe assicurare la medesima velocità e il medesimo rendimento nella ricerca di un nuovo farmaco. Ma, soprattutto, nessun sistema pubblico potrebbe drenare investimenti e assicurare lo sforzo di ricerca messi in campo dalle compagnie private.

Se oggi disponiamo di farmaci in grado di salvare ogni giorno molte e molte vite, lo dobbiamo anche e soprattutto alla «scienza imprenditrice» messa in campo dalle Big Pharma

Se oggi disponiamo di farmaci in grado di salvare ogni giorno molte e molte vite, lo dobbiamo anche e soprattutto alla «scienza imprenditrice» messa in campo dalle Big Pharma.

Tuttavia è anche vero che questo meccanismo espone la ricerca farmacologica ad almeno due grandi rischi.

Il primo rischio è quello di perdere di vista i luoghi del mondo dove c’è la malattia ma non c’è il mercato. I farmaci orfani, ai tempi de Il giardiniere tenace si chiamavano così i farmaci che potrebbero esserci e che non ci sono ancora perché nessuno ha cercato di metterli a punto: orfani, appunto per questa distrazione. Va da sé che le aziende private sono stimolate dalla logica intrinseca del mercato a fare ricerca lì dove c’è possibilità di realizzare guadagni. Ovvero a ricercare farmaci per le malattie, gravi e meno gravi, dei possibili consumatori di farmaci. Non sono strutturalmente mobilitate a fare ricerca lì dove non c’è possibilità di profitto. Ovvero a ricercare farmaci per malattie, anche gravissime, che colpiscono principalmente persone che non sono consumatori potenziali. Certo, molte aziende tra le tradizionali Big Pharma occidentali e anche tra le nuove emergenti in Oriente partecipano ad azioni di tipo volontaristico per portare i farmaci anche lì dove non arriva il mercato. Ma queste azioni non fanno leva sull’intima propensione delle aziende. Non rappresentano il loro «core business». In ogni caso non sono tali da risolvere il problema dei malati che non sono, anche, consumatori.

Il secondo rischio cui ci espone la ricerca farmacologica portata avanti essenzialmente da aziende che operano con una logica di mercato è che, quando il mercato si fa duro (ovvero quando il giro di affari vale miliardi di euro), possono scendere in campo i duri. Ma non i duri alla Le Carré. Più semplicemente coloro che, nelle aziende e nei laboratori di ricerca, sono tentati di guardare prima al bilancio e poi al rigore della sperimentazione. Queste persone possono spingere per affrettare i tempi della ricerca o per aggirare le regole in modo da abbattere i costi e/o arrivare primi sul mercato. Talvolta queste persone possono cedere alla tentazione del peccato di omissione e tacere su effetti indesiderati di farmaci promettenti: nel caso Lipobay, probabilmente, alcuni hanno ceduto alla tentazione. Paolo Bianco, che con Elena Cattaneo e Michele De Luca ha contribuito a smascherare la truffa di Stamina, prima di morire ad appena 60 anni nel 2015, ha denunciato la cultura emergente negli USA e in Europa tesa a “fare in fretta”, a non rispettare gli standard di sicurezza pur di arrivare prima sul mercato.

Magari, come insinuava venti anni fa Le Carré, alcune tra persone compartecipi dalla logica di bilancio possono essere tentate di sperimentare nel Terzo Mondo, con regole e controlli un po’ annacquati, i loro principi attivi più promettenti. L’ipotesi è remota, ma non è del tutto inverosimile. In fondo proprio mentre in Italia i tipi della Mondadori licenziavano Il giardiniere tenace, la rivista Science informava che 30 famiglie in Nigeria, appellandosi a una legge americana contro la pirateria vecchia di 210 anni fa, hanno trascinato in un tribunale degli Stati Uniti un’azienda americana perché colpevole, secondo loro, di aver sperimentato un farmaco contro la meningite, su 200 dei loro bambini senza il preventivo consenso informato. Alcuni di questi bambini africani sarebbero morti. L’azienda ammise la sperimentazione. Ma poi seccamente smentì che sia avvenuta fuori dalle regole …  

Questo non significa in alcun modo che le grandi compagnie multinazionali occidentali e orientali del farmaco abbiano, di norma, comportamenti discutibili o addirittura criminali. Diamo per scontato che la norma in quelle grandi e meritorie aziende, sia il rispetto della legge. E in una multinazionale del farmaco il tasso di illegalità non sia superiore, anzi sia inferiore al tasso medio della società civile. Tuttavia non è impossibile che, talvolta, all’interno delle grandi compagnie del farmaco si producano comportamenti al limite del lecito o del tutto illeciti. Ma non è la verosimiglianza delle insinuazioni di Le Carré che deve catturare il nostro interesse. Bensì la soluzione dei problemi generali che lo scrittore solleva: la ricerca orfana e la ricerca fuori dalle regole.

La ricerca orfana per mancanza di malati/consumatori è qualcosa di più di un rischio, è una realtà documentata. Che non può essere, però, ascritta alle compagnie private che, per statuto, operano sul mercato con una logica di mercato. La presenza di farmaci orfani e l’esistenza di centinaia di milioni di persone che non diventeranno mai potenziali consumatori, anche se si possono ammalare come e più dei consumatori potenziali, chiamano in campo la responsabilità della politica. È la società (planetaria) nel suo complesso che deve farsi carico di questo enorme problema. Sfruttando quando è possibile le risorse e l’efficienza del mercato. Ma sapendo andare oltre il mercato, quando le sue risorse e la sua efficienza non bastano.

Quanto poi al rischio di una ricerca effettuata al di là delle regole, magari in un paese accomodante tra quelli ancora in via di sviluppo, occorre trovare una soluzione per minimizzarlo. La migliore, forse, è allestire un sistema di controllo rigoroso e indipendente. Possibilmente un sistema di controllo unico in tutto il pianeta, cosicché le procedure e i tempi di sperimentazione di un farmaco necessari in Italia o negli Stati Uniti siano i medesimi che in Kenya o in Nigeria, in Ucraina e in Nuova Zelanda, in Cina e in Corea. La globalizzazione della biomedicina richiede la globalizzazione effettiva dei sistemi di controllo della ricerca biomedica. Se John Le Carré, col suo stile, ce lo ha ricordato, beh questo torna a suo merito.

Come torna a suo merito di averci ricordato un dovere preciso: i nuovi farmaci salvavita e i vaccini – come saranno quelli specifici contro il coronavirus SARS-CoV-2 – devono essere testati con rigorosi criteri medici in tutto il mondo e distribuiti con rigorosi criteri di solidarietà in maniera equa e generosa a tutto il mondo, europei e africani, asiatici e americani. Ricchi o poveri che siano. 

 

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