SCIENZA E RICERCA

La storia delle popolazioni indigene americane ricostruita grazie all'analisi di antichi genomi

Su Nature, un articolo del professor Eske Willerslev del St John's College dell'università di Cambridge e del professor David Meltzer, archeologo alla Southern Methodist University, ripercorre i risultati di alcuni studi condotti negli ultimi dieci anni che hanno aiutato a comprendere meglio la storia delle popolazioni indigene nel continente americano tra il tardo Pleistocene e l'inizio dell'Olocene grazie alle analisi di antichi genomi. Tali ricerche hanno permesso di ricostruire i flussi migratori e gli scambi culturali tra le popolazioni che abitavano le Americhe durante questo periodo.

Negli anni Ottanta furono ritrovati, in Groenlandia, dei capelli umani rimasti aggrovigliati per 4000 anni attorno a un pettine di osso di balena. Grazie alle tecniche di sequenziamento del dna, Willerslev e il suo team ottennero la prima ricostruzione di un intero genoma umano antico e furono in grado di stabilire che i capelli in questione appartenevano a un uomo della cultura Saqquq. Fino ad allora, gli studi si basavano sull'analisi del dna mitocondriale ed erano molto meno accurati di quelli basati sull'analisi dei genomi completi.

Dopo questa scoperta ha avuto inizio un decennio piuttosto denso di risultati scientifici che hanno permesso di comprendere più a fondo la storia e la cultura dei più antichi abitanti del continente americano.

Questi dieci anni di ricerche sul DNA estratto da reperti archeologici hanno dimostrato che i genomi delle persone che abitavano le Americhe nel lontano passato, ad eccezione dei popoli artici, arrivati tempo dopo, sono molto più simili a quelli dei nativi americani contemporanei rispetto a quelli di qualunque altra popolazione nel mondo. Questi risultati affossano la teoria secondo la quale in America, prima dei nativi americani, fossero presenti altre popolazioni.

Nel 2014, Willerslev ha sequenziato il DNA di un bambino sepolto 12.000 anni fa in Montana: si tratta del più antico genoma di un nativo americano mai campionato prima.
Nello stesso anno, uno studio ha mappato il genoma dei resti di un bambino di quattro anni ritrovato negli Venti da un gruppo di archeologi russi e morto in Siberia 24.000 anni fa, nel paleolitico superiore.
I risultati di questi studi hanno suggerito l'esistenza di un'altra popolazione antica, non ancora identificata, da cui discendono sia la popolazione degli Antichi Paleo-Siberiani sia quelle dei nativi americani.

Le prime prove archeologiche della presenza esseri umani nel Nord-est asiatico, infatti, si trovano nel sito archeologico nei pressi del fiume Yana, in Siberia, e risalgono a 31,6mila anni fa. Poco prima del periodo finale del Pleistocene, le calotte polari hanno iniziato a formarsi e il livello del mare è sceso fino a 50m al di sotto del livello attuale. A quel punto, la regione dello stretto di Bering non era più sommersa dalle acque del mare: si era infatti formato un “ponte” della larghezza di 1800 km circa, che collegava l'Asia con l'America e che permetteva il passaggio di popoli.

Anche la storia genetica dei cani sembra confermare l'ipotesi che nel continente americano si siano insediate popolazioni provenienti dal Nord-est asiatico. Questi animali, scrivono gli autori, furono addomesticati con molta probabilità in Siberia o in Beringia nel tardo Pleistocene e le divisioni dei loro lignaggi, che è possibile ricostruire analizzando il loro dna mitocondriale, coincidono con quelle delle popolazioni umane. Per dirlo con le parole di Willerslev e Meltzer: “man mano che i gruppi umani si isolavano l'uno dall'altro, lo stesso facevano i cani che li accompagnavano”.

A partire dalla fine dell'Olocene, poi, le popolazioni dell'America centrale e meridionale rimasero abbastanza stabili. Ci furono degli spostamenti delle popolazioni e processi di interazione e scambio tra diversi gruppi all'interno del continente, ma su scala molto più piccola. L'analisi dei genomi antichi dimostra che in alcune regioni la popolazione rimase la stessa anche per millenni, fino all'arrivo degli europei.

 

“Ad oggi”, continuano gli autori, “non ci sono prove genomiche che suggeriscono che i primi popoli americani discendano da una popolazione proveniente da una regione diversa dal nord-est asiatico. La controversa affermazione che i primi popoli provenissero dall'Europa attraverso il Nord Atlantico, basata su un'apparente somiglianza nella tecnologia degli strumenti di pietra tra la cultura solutreana dell'Europa del pleistocene e quella di Clovis in Nord America, è stata messa in discussione. [...]
In effetti, è stato ora dimostrato che, con l'eccezione dei successivi gruppi Paleo-Inuit e Inuit Thule, tutti gli antichi genomi umani delle Americhe hanno affinità più strette con i popoli nativi americani contemporanei che con qualsiasi altra popolazione attuale in tutto il mondo”.

Il lavoro di Willerslev ha anche posto fine anche alla disputa sull'uomo di Kennewick, accesa in seguito al ritrovamento di uno degli scheletri più completi mai ritrovati sul continente americano, di circa 9000 anni. Dopo la scoperta di questo reperto, avvenuta nello stato di Washington nel 1996, iniziò una serie di cause legali per stabilire a chi appartenesse. C'erano infatti alcune tribù di nativi americani che ne rivendicavano la proprietà.

Willerslev incontrò i membri delle tribù in questione, ascoltò le loro ragioni e propose loro una soluzione: se avessero acconsentito a sottoporsi a uno studio del loro dna, lui lo avrebbe confrontato con quello dell'uomo di Kennewick per stabilire se esistesse o meno un legame genetico.
Ebbene, l'appartenenza genetica dell'uomo di Kennewick al popolo nativo americano fu confermata e lo scheletro venne restituito alle tribù che lo reclamavano e poi riseppellito.

Nel 2018, Willerslev coordinò un altro studio in cui furono analizzati 15 dna antichi estratti da vari resti umani ritrovati nel continente americano, dall'Alaska fino alla Patagonia. In questo lavoro, oltre a ricostruire i movimenti e le interazioni tra i primi umani a diffondersi in queste aree durante l'era glaciale, lo studioso scoprì le origini di Spirit Cave, la mummia naturale più antica del mondo ritrovata nel 1940 in una piccola grotta rocciosa nel nord-ovest del Nevada. Willerslev e il suo team appurarono che il genoma della mummia corrispondeva a quello dei nativi americani, e così essa fu restituita alla tribù Fallon Paiute-Shoshone del Nevada.

Come spiegano gli autori, confrontare i dna antichi estratti dai reperti archeologici ritrovati sul continente americano con quello delle popolazioni indigene contemporanee è utile non solo per ricostruire l'antica storia di questi popoli, ma potrebbe anche permettere di individuare i fattori genetici che nei nativi americani sono correlati con l'insorgenza di malattie metaboliche. “Per raggiungere tale potenziale sarà necessario stabilire più rapporti di collaborazione tra la comunità indigena e quella scientifica”, scrivono Willerslev e Meltzer nell'articolo su Nature.

Gli studiosi insistono, infine, sulla necessità di coinvolgere negli studi sul DNA i membri delle comunità indigene nel rispetto della loro cultura, e che per fare questo servono delle linee di condotta etiche che proteggano gli interessi delle popolazioni locali.

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