CULTURA

Susanna Tamaro: vivere con l'Asperger

“Soffro della sindrome di Asperger, è questa la mia invisibile sedia a rotelle, la prigione in cui vivo da quando ho memoria di me stessa”. Senza giri di parole, dopo 158 pagine disseminate di ricordi, Susanna Tamaro racconta la malattia. È il capitolo venti del suo ultimo lavoro, Il tuo sguardo illumina il mondo (Solferino 2018).

“Dentro di me ogni mattina apparecchio una tavola. C’è molto ordine nel mio disporre le stoviglie, prima il piatto, poi il bicchiere, il pane, le posate ai lati, in mezzo al tavolo la brocca dell’acqua, magari vicino un piccolo vaso con un fiore. Poi qualcuno, all’improvviso, dà un violento strattone alla tovaglia e tutto vola a terra con gran frastuono di metallo, cocci e vetri. Basta un minimo rumore, un evento imprevisto e dentro di me si scatena il disordine. E con il disordine la disperazione. Sbatto allora la testa contro il muro. ‘Non capisco più niente’ ripeto, gridando. Tutto in me si fa buio. Non so più da che parte cominciare a rimettere tutto a posto”.

Colpisce la lucidità. La capacità di descrivere perfettamente i moti interiori. Quella stessa lucidità che spinge uno psicanalista a dirle che non ha bisogno di analisi. I primi segnali iniziano da bambina. Non ama il contatto con i compagni, è silenziosa, ubbidiente al punto tale che ci si può non accorgere della sua presenza in una stanza. Immobile e muta, sguardo basso. Precisa e puntuale. Con la sensazione di non essere come gli altri vogliono. Non chiede attenzioni, Non ha desideri. Ma in realtà è una pentola a pressione. Un nuovo gioco, una gita, una festa le provocano terrore. E se la pressione è troppa, la valvola salta. Le crisi di “rabbia cieca e furiosa” la lasciano spossata per giorni. All’asilo la direttrice parla con la madre. “In sua figlia c’è qualcosa che non va. Qualcosa di grosso. Ritengo molto probabile che finisca i suoi giorni in un ospedale psichiatrico”. Dalle elementari inizia ad assumere bromuro, poi affronta la trafila dei borderline. Viene allontanata dalla famiglia, trasferita prima in collegio, poi in una casa famiglia. Inizia ad assumere farmaci per le sindromi schizofreniche.

“I gesti normali delle persone, quelli che vengono compiuti quasi inconsapevolmente, per me sono dei piccoli Everest quotidiani. Conquiste faticose, che avvengono tutte in riservato silenzio. Andare al ristorante, incontrare persone nuove in ambito professionale, fare o ricevere una telefonata… E che cos’è che mi permette di sopravvivere alla fragilità dei miei giorni? Tutto ciò che è limitato, ripetitivo, stabile”. Trova sollievo nella quotidianità, negli spazi circoscritti, la stanza, il giardino, lo studio il frutteto. E gli animali.

Il libro di Susanna Tamaro, però, non è solo il racconto di una sofferenza interiore. È anche, e soprattutto, il racconto di un’amicizia, di passioni comuni, di una affinità morale e culturale attorno ai quali si snoda l’opera della scrittrice. Nel corso di tutta la narrazione si rivolge a Pierluigi Cappello, poeta morto nel 2017 a causa di un tumore e costretto su una sedia a rotelle dall’età di sedici anni in seguito a un incidente stradale. A lui racconta le difficoltà incontrate fin dall’infanzia a causa dell’Asperger, il rapporto con la madre e un padre disinteressato ai figli. Racconta il secondo matrimonio della madre e la convivenza con un patrigno altrettanto inaffidabile.

Con lui parla del suo incontro con la poesia, intorno ai 16 anni,  tenendo tra le mani l’autobiografia di Pablo Neruda Confesso che ho vissuto. “Scoprire il senso profondo della poesia e il potere dirompente delle parole è stato per me come scoprire in alto l’apertura di una feritoia nella parete della torre in cui mi trovavo prigioniera”. I libri salvano la vita, scrive. E alla fine, con un processo che non ha nulla di razionale, si rende conto che il suo mestiere è raccontare storie.

Di capitolo in capitolo, il racconto della sua vita è intercalato ai ricordi dell’amico. Ripercorre il loro incontro, il tempo trascorso a parlare della vita degli insetti, il progetto di scrivere un libro insieme, di passare qualche giorno sul lago di Barcis o di fare un tratto della ciclabile Alpe Adria. La scrittrice parla degli ospedali di Padova e di Tolmezzo, dove Pierluigi Cappello è stato ricoverato a causa della malattia che l’ha condotto alla morte. Ricorda l’ultimo anno trascorso a letto, i cicli di chemioterapia. E la morte. “Questo libro è l’ultima pietra che portavo nella mia gerla, la più pesante, quella che era rimasta sul fondo. Ho dovuto infilare il braccio dentro, cercarla nella parte più buia, nascosta tra le foglie”.

Il libro di Susanna Tamaro è la promessa fatta a un amico.

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