SOCIETÀ

Le tendenze antidemocratiche si riflettono sui social network

I social media sono spesso criticati per le modalità di moderazione dei contenuti, che in effetti a volte sono imperscrutabili, per usare un educato eufemismo (in questo articolo abbiamo provato a identificarne le ragioni): tra post cancellati per errore perché fanno riferimento a ortaggi andati a male e per i non madrelingua potrebbero sembrare contenuti omofobi, espressioni di violenza inaudita che "non violano gli standard della comunità" e profili sospesi per segnalazioni multiple fatte dalla community del competitor di turno, il sistema è senza dubbio perfettibile. Non sarà di certo di consolazione per nessuno, ma potrebbe anche andare molto peggio, soprattutto se i governi non democratici entrano a far parte dell'equazione.

Quando pensiamo alla censura, ci vengono subito in mente paesi come la Russia e la Cina, che tendono a esercitare un controllo molto stringente delle opinioni dei loro cittadini e delle modalità di diffusione dei loro pensieri. Meno conosciuta è la situazione del Nord Africa e del Medio Oriente, dove si verificano dinamiche molto simili, forse anche più gravi. Damian Redcliffe, docente di giornalismo all'università dell'Oregon, ha monitorato per 11 anni i limiti che la libertà di opinione si è vista imporre in questi paesi nell'ambito social: a un'esplosione di creatività ha fatto da controcanto una limitazione più o meno esplicita alla creazione di contenuti da parte dei governi: un caso eclatante è quello di Haneen Hossam, star egiziana di TikTok che invitava i suoi connazionali a utilizzare i video sui social per incrementare le loro entrate economiche, come fanno moltissimi creator nostrani, e si è vista condannata a tre anni di carcere per traffico di esseri umani, dopo che insieme ad altre 10 colleghe era stata anche accusata di "violazione dei principi e dei valori della famiglia". E se è vero che in linea teorica si può approvare il divieto per gli influencer di Dubai di pubblicizzare prodotti a base di tabacco, non fa stare molto tranquilli l'idea che la legge si riferisca anche alla pubblicità indiretta (essere filmati con una sigaretta in mano, per esempio, potrebbe essere rischioso).

Leggendo i commenti sotto i post dei quotidiani italiani che parlano di influencer, potremmo supporre che parte dei nostri connazionali non proverebbero una particolare empatia nei confronti dei protagonisti di queste storie. Ma quella che sta assumendo le tinte di una vera e propria persecuzione non si limita agli influencer: le persone più a rischio sono giornalisti e attivisti, come dimostra il caso di Amina Mansour, che per aver pubblicato dei post satirici è stata condannata a sei mesi di carcere, mentre in Giordania il giornalista Adnan Al-Rousan è stato arrestato per alcune critiche al re condivise su Facebook (qui c'è la sua pagina: grazie al traduttore automatico di Facebook ognuno può farsi un'idea dei contenuti in oggetto). Al-Rousan si era limitato a rilevare come il re giordano si dedicasse più ai festival e ai viaggi di piacere che al suo popolo, mentre il debito pubblico superava i 51 miliardi di dollari, più del 110% del PIL del paese.

Anche quando non vengono prese di mira persone specifiche, i governi possono intervenire pesantemente sulla diffusione dei contenuti. Questo, in realtà, è successo anche in Occidente. Con modalità piuttosto controverse, Tiktok è stato già bandito in Montana (a partire dal 2025), ma è appeso a un filo in tutti gli Stati Uniti per ragioni di sicurezza, mentre è già stato vietato a tutti i dipendenti statali sui loro cellulari lavorativi, oltre che in alcune università che ne hanno bloccato l'accesso dal wi-fi del campus, con grande disappunto degli studenti. Al social cinese, come del resto agli altri, non va meglio in Russia, dove però dall'inizio della guerra ci ha messo del suo, spingendo con il suo algoritmo i contenuti favorevoli alla politica del Cremlino, probabilmente per non essere bloccato sul territorio come è successo ad altri social.

C'è da riflettere su come gli algoritmi dei social network possano influenzare le nostre credenze, mostrandoci contenuti diversi anche a seconda del contesto politico. Redcliffe cita un rapporto dell'Australian Strategic Policy Institute secondo il quale i paesi più manipolatori sono Iran, Arabia Saudita e, prevedibilmente visto il paragrafo precedente, la Russia. Quando si parla di fake news, non dobbiamo immaginare un impatto solo locale, perché idealmente ogni paese può accedere a questi contenuti, talvolta preparati a loro uso e consumo. Alcuni account iraniani, per esempio, hanno prodotto dei post appositamente destinati ai cittadini scozzesi, per incentivare il loro desiderio di indipendenza. Meta, dopo qualche tempo, ha eliminato questi account, ma nel frattempo gli scozzesi avevano già visto buona parte di ciò che dovevano vedere. Come sa chiunque abbia letto Orwell, la propaganda è una macchina potentissima, ed esiste il fondato sospetto che l'intelligence iraniana abbia anche cerchi di corrompere i moderatori del social per bloccare i profili di giornalisti e attivisti ostili. Nel caso in oggetto non hanno avuto successo, ma non dimentichiamo che i moderatori dei social vengono spesso definiti come i nuovi poveri, e che quindi 5.000 euro potrebbero fare gola ad alcuni di loro. Forse, quindi, non è un caso se molti post sulle proteste dell'anno scorso in Iran sono stati cancellati dalle piattaforme del gruppo Meta (che naturalmente ha smentito le accuse).

Naturalmente il problema non sono tanto i social di per sè, ma la mancanza di cultura democratica presente anche in vari paesi che, sulla carta, democratici lo sono, ma hanno notevoli difficoltà nella gestione del dissenso (ricordiamo che in Russia sono stati bloccati anche molti siti web, non solo i social network). Il tutto si intreccia a oggettive problematiche di tutela dei dati e alla diversa gestione di questi ultimi da parte dei paesi da cui provengono gli utenti. In ogni caso, i social diventano una cartina tornasole piuttosto efficace quando si tratta di farsi un'idea del livello di democratizzazione di un paese. Non è un caso che in Turchia e in Israele si stiano preparando dei disegni di legge atti a bloccare tutti i contenuti falsi e fuorvianti. Giusto e sacrosanto, naturalmente, ma in sede legislativa è difficile definire esattamente che cosa si intenda, e la conseguenza è che leggi del genere possono trasformarsi in un'arma per silenziare gli oppositori.

In un momento storico in cui le persone sono sempre più propense a ricercare informazioni sui social network, piuttosto che sui giornali o in televisione, i governi stanno cercando di controllare la cosa, nello stesso modo in cui per anni hanno cercato di inibire trasmissioni e giornalisti dissidenti, attraverso multe, intimidazioni e, nei casi peggiori, la carcerazione. Il fatto che le piattaforme social abbiano sede in paesi diversi e siano, almeno sulla carta, indipendenti, non sembra fare una grande differenza, visto che un eventuale blocco ridurrebbe gli introiti pubblicitari di queste società. Sembra quindi che giornalisti e attivisti non abbiano trovato nei social degli alleati e chissà, magari in futuro dovranno utilizzare i più affidabili sms, come è successo in Russia ma non solo.

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